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(Rassegna.it, 23 marzo 2002)
Donne e uomini che siete qui, compagne e compagni, la vostra presenza oggi è la risposta più efficace alla follia del terrorismo, è la risposta più forte in difesa della democrazia e delle sue regole. Il terrorismo è tornato a colpire. Lo ha fatto, come in altre occasioni, scegliendo con cura il suo bersaglio. Il professor Marco Biagi era un uomo di cultura, che aveva messo il suo sapere al servizio dello Stato, che lavorava per definire merito e regole dei rapporti sociali. Lo hanno ucciso, come prima avevano fatto con Massimo D'Antona, con il professor Tarantelli, con il professor Ruffilli.
A noi non sfugge che la follia del terrorista cerca sempre la componente simbolica. Nei loro atti criminosi il simbolo vale, trasferisce messaggi; nella simbologia è evidente anche l'attacco alle politiche di coesione, al loro valore in questa società: si vuole intimidire chi svolge la propria preziosa funzione di consulenza, dunque svolge una delicata funzione sociale.
Il terrorismo però interviene per la prima volta direttamente nelle relazioni sociali, punta a stravolgerle, a dettare lui l'agenda di merito e i tempi: questa novità terribile non ci sfugge e non deve sfuggire a nessuno. Le relazioni sociali tra parti che rappresentano interessi diversi sono una componente vitale della democrazia formale e di quella sostanziale. Ecco perché sconfiggere il terrorismo è necessità e compito di tutti, ancor più di sempre, di tutti i democratici, di chi ha a riferimento lo Stato che la lotta di Resistenza e di Liberazione ha consegnato agli italiani. Non deve sfuggire a nessuno però l'altra novità della follia terroristica: l'omicidio è stato consumato mentre cresceva la mobilitazione dei lavoratori e dei cittadini a sostegno delle loro legittime e vitali esigenze, mentre cresceva un movimento vasto, determinato, che agisce secondo le più consolidate regole e prassi della sua essenza democratica. L'omicidio avviene a poche ore da questa manifestazione. Penso che l'obiettivo dei terroristi sia più subdolo e profondo, ma non posso qui ignorare la circostanza e la scelta dei tempi.
Agli inquirenti e alle forze dell'ordine spetta ora fare luce piena su quanto è accaduto, catturare i criminali, fare luce sulle tante zone d'ombra, sulla solitudine nella quale è stata lasciata una persona minacciata.
La nostra risposta è quella di sempre, democratica, forte: siete voi la nostra risposta. Partecipiamo naturalmente al dolore della famiglia. Ma nel contempo metteremo in atto tutto ciò che una forza di rappresentanza sociale come la Cgil può fare per contrastare con fermezza ogni violenza, non avendo mai accettato né la violenza praticata, né quella teorizzata, nemmeno quella che gli altri apparentemente sopportavano. Nell'esercizio delle nostre funzioni saremo come sempre fermi, non accetteremo condizionamenti.
Affermare, come è stato fatto, che la violenza dei terroristi è il frutto di un clima di odio creatosi nella società italiana non è soltanto una tesi priva di qualsiasi fondamento, ma è anche il goffo tentativo di demonizzare la libertà di critica e la naturale dialettica sociale. Poco importa se quel tentativo è rivolto a cittadini, a intellettuali, a sindacati. E, per la nostra parte, chi ci accusa di essere componente di questo clima ci offende, offende la nostra storia e l'intelligenza dei cittadini italiani. Quella storia di donne e di uomini che hanno lottato a viso aperto contro il terrorismo, sempre.
Una storia così presente nella memoria, nella cultura, negli occhi di tutti da non avere bisogno, oggi, di nessuna parola da parte mia. E' una storia che nessuno può ignorare o negare. Così come non ci soffermeremo più di un istante per chiedere a loro se possono tutti affermare la stessa cosa verso il terrorismo, di qualunque matrice ideologica.
Dunque risponderemo sostenendo e difendendo il difficile lavoro degli inquirenti, a partire da quello dei magistrati, esposti ancora una volta e ancora di più anche in questo difficile e pericoloso compito. Saremo dalla parte delle forze dell'ordine. Faremo scelte responsabili in ogni atto quotidiano del vivere civile e delle nostre funzioni. Per queste ragioni manifestiamo oggi e torneremo a farlo nella prossima settimana in tutte le città italiane insieme a Cisl e Uil.
Siamo convinti che nella conferma del giudizio di merito su politiche, anche contingenti, non condivise e nelle iniziative di lotta a sostegno delle nostre rivendicazioni c'è la risposta giusta al terrorismo. Perché così si ripristina la normalità e non si subisce l'effetto dei violenti e degli omicidi. Sono intatte le ragioni che ci avevano portato a chiedervi di venire oggi a Roma. Quella di oggi non è la giornata di festa che avevamo previsto. Abbiamo mutato i nostri obiettivi: abbiamo messo, ancora una volta, al centro della risposta di milioni di persone la lotta contro il terrorismo, per la democrazia.
E lo facciamo con la compostezza, la fermezza, la serenità che qui è dimostrata da voi. Guardino queste piazze coloro che hanno sollevato non critiche di merito ma giudizi ingiuriosi verso di noi.
Staremo in campo nei prossimi giorni con le nostre valutazioni sullo stato di questo paese, sull'andamento della sua economia, un'economia che ha subìto un brusco rallentamento, più forte della congiuntura internazionale: si rischia l'interruzione del ciclo positivo innescato negli anni passati dal risanamento. L'economia era tornata a crescere, il lavoro era diventato un obiettivo raggiungibile per tante ragazze e ragazzi, anche nel Mezzogiorno. Il rallentamento ci preoccupa: siamo convinti che una parte consistente delle difficoltà dell'oggi siano da attribuire a politiche inefficaci per sostenere la crescita e ancor più inefficaci per rovesciare il suo rallentamento. Abbiamo criticato per tempo interventi aselettivi su un'offerta priva di qualità. Abbiamo criticato scelte che deprimevano la domanda. Abbiamo detto senza infingimenti la nostra contrarietà alla scelta del modello neoliberista che questo governo ha portato a Barcellona, al confronto con le altre forze economiche, sociali e politiche dell'Europa, in opposizione allo sviluppo dell'economia della conoscenza che era stato individuato in precedenza a Lisbona.
Noi ci siamo sempre battuti senza incertezze perché questo paese entrasse nell'Europa nel gruppo di testa, perché facesse parte di chi avrebbe dotato l'Europa di una moneta; così oggi insistiamo perché si arrivi rapidamente a una Costituzione dell'Europa, con una carta dei diritti integrata alla stessa. L'Europa deve allargarsi, l'allargamento deve dare possibilità a milioni di cittadini di avere disponibili protezioni sociali, diritti, di riaffermare cioè in concreto quel modello sociale che storicamente l'Europa ha consolidato, perché questo modello diventi un punto di riferimento in tutte le sue componenti anche nella sfida della globalizzazione. Regolare il mercato, offrire certezze a chi vuole un futuro più sereno non è soltanto necessario, è possibile, se la politica lo vuole.
E qui, oggi, da noi è in coerenza con il modello che era stato definito a Lisbona, quello di una crescita che guarda alla qualità di quel che si produce, di come lo si produce, che considera l'innovazione un motore importante, valorizza le persone e i loro saperi è in coerenza con quel quadro di riferimento è possibile dare impulso al sistema produttivo, renderlo competitivo ancorandolo un'idea alta di qualità.
Bisogna orientare di conseguenza gli interventi verso il Mezzogiorno, creando in loco le condizioni di ambiente economico e sociale per attrarre investimenti. Come si fa a non considerare il Mezzogiorno una delle priorità della politica economica di un paese come il nostro? Ma se si guarda ai provvedimenti del governo, quelli varati nei primi cento giorni e quelli contenuti nella legge finanziaria si scopre che non c'è traccia di intenzioni efficaci e positive in quelle politiche; mentre si asseconda la richiesta delle imprese di sostegno a un modello di competizione bassa, destinato a portare il sistema produttivo italiano in un'area marginale nel mercato e inevitabilmente a produrre rotture sociali. è così perchè quando non si rende disponibile qualità, quando non si orienta la propria attività verso le esigenze fondamentali delle stesse imprese e invece si risponde con scelte di collateralismo antico alla parte che ha costruito le sue fortune lucrando sulla svalutazione e sui cambi flessibili, si costringe il paese ad arretrare.
Questa è la prima ragione della nostra contrarietà. Noi proponiamo una sfida competitiva che abbia al suo centro la qualità, l'innovazione, la valorizzazione della persona. Loro ci rispondono affacciando sempre ed esclusivamente ipotesi che portano alla riduzione dei costi, che aggrediscono e ridimensionano tutto ciò che ha un costo: le prestazioni sociali, le tutele, i diritti. Abbiamo detto di non condividere questa impostazione, l'abbiamo detto in esplicito.
Così come abbiamo detto e dobbiamo dire anche alla politica, ai partiti, che siamo preoccupati per la scelta delle deleghe. Non mettiamo in discussione la legittimità di uno strumento previsto dal nostro ordinamento. No, è un'altra la cosa che ci preoccupa. Il fatto che nello stesso arco di tempo si utilizzino deleghe su temi come le normative ambientali, la scuola, il fisco, la previdenza, il mercato del lavoro e i diritti: la delega è legittima ma esautora e impoverisce il confronto. Occorre riflettere su questo metodo anche nella gestione dei rapporti tra le forze politiche e non soltanto tra quelle sociali.
E poi ci sono le nostre contrarietà di merito, non solo quelle legate alla forma, alle modalità (ma spesso sapete come la forma sia sostanza). Abbiamo detto della nostra contrarietà alle intenzioni del governo in materia di scuola: il ricorso alla delega sui temi dell'istruzione e della formazione è sorprendente. Questo governo - nessuno di noi l'ha dimenticato - appena insediato ha sospeso quella riforma dei cicli che il governo precedente aveva varato anche con il nostro consenso. L'ha sospesa affermando che quella riforma era poco conosciuta, poco discussa e dunque poco condivisa dal mondo della scuola. Ha per questo annunciato il coinvolgimento di tutta la società civile, ma s'è capito subito quale sarebbe stata la realtà: quelle migliaia di studenti che hanno nei mesi scorsi circondato e isolato gli Stati generali del ministro non hanno soltanto svelato la debolezza di un disegno tutto mediatico; hanno resa chiara la scelta del governo.
Una scelta regressiva sul terreno della qualità dell'istruzione e della formazione, che allontana il nostro paese dall'Europa, che mette in discussione un modello di sviluppo fondato sulla qualità. Non sorprende allora il taglio delle risorse per l’istruzione, per la formazione, per la ricerca. Non sorprende che in nessuna delega si trovi traccia della formazione continua come diritto della persona ad apprendere per tutta la vita; che non si trovi traccia dell’educazione degli adulti come opportunità nel lavoro e oltre il lavoro per arricchire la propria vita.
è evidente ai nostri occhi il disegno di indebolire, impoverire e rendere marginale il ruolo della scuola pubblica in questo paese. Una scuola pubblica più debole può facilmente arrendersi alla logica del mercato e persino a una visione cinica della vita: i più forti possono proseguire negli studi, i più deboli devono essere incanalati in una formazione professionale di seconda serie, in quella precoce penalizzazione a tredici anni c’è la pura e cinica registrazione dei destini sociali di ciascuno.
Ma è questa la prospettiva di vita che i padri possono indicare ai loro figli? Noi non l’abbiamo mai pensato. E per questa ragione abbiamo indicato nella sostanza dei provvedimenti precedenti un merito condiviso e osteggiamo le scelte che sono in campo con quella delega.
E che dire delle decisioni in materia di fisco? Si affaccia l’idea di superare la progressività e dunque di ledere il principio che chi ha di più paga di più: una delle ragioni fondamentali della solidarietà; si affaccia un’ipotesi di redistribuzione iniqua. Si dice ai cittadini: vi faremo pagare meno tasse, senza dire nè come nè perchè, ma non gli dice che il calo del gettito priverà il welfare di risorse fondamentali: gli si nega la verità e si spingono i cittadini e le famiglie verso la privatizzazione di prestazioni che sono fondamentali per loro. Basterebbe guardare a quello che già è capitato per la sanità, dopo che progressivamente è stato erosa e distrutta una riforma importante che aveva trovato nella sua costruzione la nostra partecipazione e il nostro consenso.
E per quanto riguarda le pensioni, la decontribuzione immaginata mette in crisi la previdenza che è stata riformata qualche anno fa con senso di responsabilità e ancora una volta con la partecipazione del sindacato. Il venir meno di quei contributi provoca un danno per i giovani e per gli anziani: i giovani non avranno più la pensione attesa; gli anziani si troveranno di fronte a istituti previdenziali incapaci, per mancanza di risorse, di garantir loro il reddito attuale e i rendimenti di oggi.
E poi, il mercato del lavoro e i diritti, così come sono stati scritti nella delega: c’è una riduzione delle regole che inevitabilmente produce conflitto e non efficienza del sistema produttivo. E’ esplicita in quella delega l’intenzione di ridurre tutte le tutele collettive, per affermare, si dice, il principio della libertà. Ma una persona più sola, priva di tutele legislative e contrattuali non è più libera: è solo più debole e dunque può essere condizionata.
La nostra priorità è un’altra: noi pensiamo all’estensione dei diritti, alla loro modulazione per i nuovi lavori, per quelle tante ragazze e quei tanti ragazzi che oggi non hanno nè tutele nè diritti riconosciuti. Pensiamo a una riforma anche delle tutele, a partire dagli ammortizzatori sociali, intrecciandoli con la formazione in modo tale da dare a tutti la possibilità di restare nel mercato del lavoro, di rientrare quando vengono espulsi per una ragione oggettiva.
Pensiamo a un sistema universale di diritti, che valga per chi è nato qui e per chi, essendo nato altrove, decide liberamente di venire a vivere e lavorare qui, con l’idea dell’universalità dei diritti, con l’idea dell’esercizio solidale.
Ma - ci siamo chiesti - è credibile un sindacato che si batte per queste priorità se nel contempo accetta di togliere o di alterare diritti antichi e fondamentali per altre persone? La risposta vi è nota. è no. Si perde la propria credibilità. Non si può affermare di voler dare ai giovani - come noi pensiamo indispensabile - dei diritti universali e nel contempo accettare l’idea di toglierli ai padri.
Ci sono note le caratteristiche delle proposte che il governo ha affacciato anche a proposito della modifica dell’articolo 18. Non c’è sfuggito nulla, neanche gli aspetti più subdoli e maliziosi. Sappiamo benissimo che quel provvedimento agisce in parte sulle persone che hanno già un’occupazione e un sistema di diritti consolidato. E agisce in maniera ancor più rilevante su coloro che vorrebbero avere dei diritti e oggi ne sono privi, oppure su coloro che entreranno successivamente nel mercato del lavoro.
A chi dice quotidianamente alle persone che lavorano, che sono tutelate, che hanno diritti: "Ma di che cosa ti preoccupi, non ci stiamo occupando di te, vogliamo agire per rendere possibile un lavoro per i giovani", ebbene, a chi affaccia questa idea noi rispondiamo così: "Non c’è nessun rapporto, non c’è mai stato, tra la possibilità per un’impresa di licenziare senza una ragione e la possibilità per la stessa impresa di assumere delle persone". E aggiungiamo: "Ma qual è la prospettiva che offrite alle persone più deboli?" Pensate alle donne e agli uomini che lavorano in attività sommerse, prive di tutele legislative e di tutele contrattuali. Quando quell’azienda emerge e finalmente per queste persone si apre la prospettiva della normalità, che cosa gli prospettano? La possibilità di essere licenziati senza giustificato motivo. Come si fa a sostenere che questa sia una prospettiva positiva, tale da stimolare anche comportamenti virtuosi, in grado di favorire l’emersione?
Sappiamo che la loro intenzione è subdola. Quello che loro prospettano è un patto neocorporativo a quelli che sono nel mercato del lavoro: "A voi non tocca ricaduta immediata". Lo dicono per le pensioni, ma è facile smentire anche questa affermazione. Lo dicono per i diritti. Perchè lo fanno? Chiedono consenso a chi è garantito a discapito di chi vorrebbe avere un lavoro e diritti riconosciuti.
Perchè la loro cultura - la loro, non la nostra - è quella che ha a riferimento il capitalismo compassionevole, la filantropia. Noi siamo figli dell’idea della solidarietà. Nella nostra storia chi lavorava si batteva per acquisire diritti e lasciarli alle generazioni che sarebbero venute dopo. Loro propongono l’esatto opposto: chiedono silenzio a chi lavora per negare diritti a chi entrerà nel mercato del lavoro successivamente.
Siamo stati criticati perchè, a proposito della nostra difesa dell’articolo18, della sua efficacia, abbiamo utilizzato l’espressione "dignità negata". Non l’abbiamo mai fatto a caso: nè chi vi parla e neppure nessuno delle donne e degli uomini della Cgil. L’abbiamo fatto perchè non si tratta di chiedere a una persona di rinunciare a una condizione materiale. Non si tratta di chiedere a una persona di rinviare nel tempo il soddisfacimento di un bisogno. Si tratta di chiedere a una persona di essere privata del reddito e del lavoro senza una ragione, dunque di provvedimenti che ledono la dignità della persona.
Nel 1966, esattamente il 27 aprile, il compagno Ugo Spagnoli pronunciava il suo discorso nel dibattito parlamentare a conclusione di una lunghissima, difficile, delicata discussione che portò all’introduzione nell’ordinamento legislativo italiano del vincolo alla giusta causa nei licenziamenti. Concludeva così il suo intervento il compagno Spagnoli: "Tutto ciò che ci si chiede nel momento in cui facciamo questa legge, tutto ciò che si è chiesto a noi per tanti anni senza avere alcuna risposta, è la tutela di quella dignità umana che la dottrina cattolica considera principio e fondamento ontologico di ogni valore umano, la più alta prerogativa di ogni persona umana, e che per noi è il fondamento di una concezione dell’uomo che vogliamo ricondurre a se stesso, liberandolo da ogni alienazione e da ogni sfruttamento".
Io non trovo parole migliori per dire oggi, a distanza di oltre 35 anni, delle nostre ragioni per difendere quella dignità, quella che passa dall’affermazione dei diritti del cittadino nei luoghi di lavoro, quella che supera la rottura di ogni divario tra lo stato di cittadino e quello di lavoratore. La rivendicazione di un diritto che è sancito dalla nostra Costituzione. Noi ci batteremo perchè si estendano questi diritti fondamentali dai padri verso i figli.
Il nostro obiettivo in questa lotta è quello di sempre, quello che un sindacato ha storicamente davanti a sè: il nostro obiettivo è un accordo che sia positivo per le persone che rappresentiamo. Con questo spirito noi ci presentiamo sempre alle trattative, agli incontri, ai confronti negoziali. Con lo stesso spirito, quando non ci sono le condizioni e si interrompe una trattativa, rispondiamo con la lotta. Perchè è in questa dinamica la sostanza della funzione più alta del sindacalismo confederale italiano.
Un sindacalismo che si fa carico dei problemi di molti, li rappresenta, li media con i suoi strumenti. Un sindacalismo che per questa ragione non ha paura dell’accordo come non ha mai avuto paura della trattativa. E così non ha paura di ricorrere allo strumento dello sciopero generale come faremo nei prossimi giorni. Le nostre condizioni, le nostre richieste sono nette ed esplicite. Se si creeranno le condizioni per il negoziato le preciseremo ulteriormente.
Ci presenteremo agli incontri dei prossimi giorni riconfermando il nostro interesse a una discussione concreta che produca cambiamenti positivi per le persone che rappresentiamo. Non troviamo elementi condivisibili in molte delle politiche che abbiamo contestato. Quel confronto ha una condizione di partenza: il governo deve sapere - ed è atto di responsabilità riconfermare anche oggi qui la nostra scelta - che un confronto, una trattativa sui temi del mercato del lavoro può essere iniziato soltanto se vengono stralciate le norme che cancellano i diritti legati all’articolo 18.
La vostra presenza oggi è straordinaria. Sono qui tantissimi giovani, lavoratrici, lavoratori, pensionati, tanti cittadini che non hanno un rapporto diretto con noi, non sono rappresentati dal sindacato. Ma sono persone che conoscono il valore dei diritti, sanno quanto sia importante in una società avere disponibili politiche di protezione, di tutela, che promuovano sviluppo e occupazione, avere diritti universali, indivisibili, come sono nella Carta dei diritti europei. I diritti sono sostanza della libertà, della coesione sociale e dunque della democrazia. Perciò la democrazia si difende anche come facciano noi oggi, difendendo i diritti e la loro universalità.
Ai tanti che sono qui, diversi da noi, agli intellettuali, dico: "Non vi preoccupate se vi aggrediscono. Rispondete con fermezza, come avete fatto". Ai tanti giovani, alle ragazze e ai ragazzi dei movimenti della pace, a coloro che vogliono regole nella globalizzazione, a quelli che hanno a cuore,come tanti altri, le tematiche ambientali, dico: "Continuate a rappresentare le vostre idee e le vostre istanze. Non fatevi intimidire. Dalla Cgil avrete sempre attenzione e rispetto. Non fatevi affascinare dall’idea di rappresentarvi autonomamente in politica. Stimolate i partiti, costringeteli a guardare a voi, alle vostre istanze".
Tonino Guerra, poeta romagnolo che ci è caro, ha voluto anche in questa occasione indicarci delle belle parole per la manifestazione di oggi. Le ha prese a prestito da un antico, sconosciuto, anonimo poeta indiano che scrisse: "Il corpo del povero cadrebbe subito in pezzi, se non fosse legato ben stretto dal filo dei sogni". Nei nostri sogni c’è un paese moderno e civile, con una democrazia forte e una società più giusta. Con il vostro coraggio, con la vostra passione civile, quella che ci dà forza, sono sicuro che li realizzeremo.