“Mancano circa 18 miliardi per raggiungere gli obiettivi del governo con le privatizzazioni”. Uno scenario che l’Area Contrattazione, politiche industriali e del lavoro della Cgil ha messo sotto esame, ipotesi per ipotesi, azienda per azienda. La conclusione? “Operazioni ingiustificate e inaccettabili”.

Gesmundo, Cgil: “Un’idea malsana”

“Sono operazioni che colpiranno direttamente i cittadini e la salvaguardia della nostra economia”, commenta il segretario confederale Cgil Pino Gesmundo: “La svendita delle partecipate compromette un progetto di sviluppo industriale del Paese”. L’esponente sindacale rileva che “il tentativo di fare cassa in vista della nuova legge di bilancio guarda oggi anche a beni pubblici cruciali, come ferrovie e porti, oltre a quanto già annunciato su Eni, Poste Italiane e Monte dei Paschi di Siena”.

Gesmundo chiede al governo un confronto “che consideri le ripercussioni economiche e sociali di tali scelte. La privatizzazione di asset strategici non solo metterebbe a rischio la strategia di crescita del nostro Paese, ma minerebbe la capacità di gestire le epocali transizioni che ci troviamo di fronte e di affrontare sfide future come la sostenibilità ambientale e la giustizia sociale”. È giunto quindi il momento “di mettere al primo posto l’interesse pubblico e il benessere collettivo, non gli interessi privati o le logiche del profitto a breve termine”.

Privatizzare non conviene

Dopo la cessione del 25 per cento del Monte dei Paschi per 919 milioni di euro e del 2,8 per cento dell’Eni per 1,4 miliardi, con altri 18 miliardi da raccogliere per centrare l’obiettivo, nell’analisi della Cgil “l’intenzione del governo di non perdere il controllo delle imprese dove ha la maggioranza limita fortemente il numero e l’entità delle operazioni possibili. Si può ottenere una cifra che difficilmente arriva a dieci miliardi”.

Una soluzione, per altro, non conveniente finanziariamente perché “in parte farebbe perdere allo Stato la possibilità di partecipare ai profitti di queste imprese. Non è un caso se in Italia, nell’ultimo decennio, tutte le privatizzazioni fatte hanno reso evidente una discrepanza significativa tra le previsioni di incassi e l’effettivo realizzo di tali entrate”.

Le esperienze già fatte, con “aziende che erano state privatizzate e sono ora in fase di ripubblicizzazione o soggette a forte intervento pubblico, come Alitalia, Autostrade e Ilva, per non parlare dei ritardi e dei costi sostenuti dallo Stato per gestire la catastrofe della privatizzazione di Telecom, evidenziano un circolo vizioso: privatizzare non ha portato ai risultati sperati e ha fatto tornare sotto il controllo pubblico molte aziende strategiche”.

Gli esempi di Eni, Poste e RaiWay

Totalmente ignorato dal governo è l’effetto negativo per i conti dello Stato. “Di Eni – argomenta Gesmundo – è stato venduto il 4,7 per cento per circa due miliardi, con un mancato incasso in dividendi di 147 milioni rispetto al 2023”.

Analogo il discorso per Poste Italiane: “Se il governo vendesse l’intera quota azionaria detenuta dal ministero dell’Economia (29,26%) incasserebbe circa 3,9 miliardi. Investirli per ridurre il debito pubblico produrrebbe un risparmio annuo di circa 182 milioni, ma rinuncerebbe a dividendi che quest’anno ha incassato per 248 milioni, con una perdita netta di 66 milioni. Per Poste, inoltre, ci sono anche i notevoli rischi legati “alla tenuta dell’occupazione, alla rete degli uffici postali, alla qualità dei servizi ai cittadini, alla raccolta del risparmio per Cassa depositi e prestiti”.

Infine RaiWay, dove non solo s’intendono vendere le quote azionarie, ma s’ipotizza una fusione con EiTowers, controllata al 40% da Mediaset: “Si vende – commenta il segretario confederale Cgil – una quota di uno degli ultimi gioielli Rai senza alcuna visione di sviluppo e senza alcuna convenienza”.

A rischio anche porti e ferrovie

Il dossier privatizzazioni del governo è aperto anche su beni pubblici cruciali come ferrovie e porti. Su quest’ultimi “emerge una situazione paradossale: si parla di apertura ai privati secondo il modello degli aeroporti, mentre simultaneamente si discute della creazione di una holding statale”.

Le ipotesi in campo “dimostrano una mancanza di chiarezza e coerenza nel dibattito sulla portualità, ricco di cambiamenti d’impostazione ma privo di un percorso concreto. Inoltre, si propone un approccio di autonomia differenziata che attribuirebbe ai porti competenze esclusive delle singole Regioni, rischiando di frammentare ulteriormente la pianificazione, la competitività e le tutele nei porti italiani”.

Per Gesmundo “questo è l’opposto delle richieste di chi lavora nel settore portuale, siano lavoratori o aziende. I porti devono restare pubblici, al servizio della collettività e della crescita economica dell’Italia. E va confermata la legge 84/94 che disciplina l’attività portuale, che a giudizio di tutti i soggetti ha funzionato e permesso uno sviluppo importante per il Paese”.

“Un’altra operazione non certo gestibile in tempi brevi e già naufragata in passato per la sua complessità e per i problemi legati alla gestione delle infrastrutture” è quella dell’ipotizzata privatizzazione delle Ferrovie dello Stato: “Sarebbe una scelta sbagliata e potenzialmente dannosa per il servizio pubblico e per i lavoratori del settore”.

Su Ferrovie così conclude Gesmundo: “È fondamentale mantenere pubblico il sistema ferroviario, bene strategico per l’economia nazionale, per garantire un servizio efficiente e sicuro. Anche e soprattutto alla luce delle trasformazioni alla mobilità che il processo di decarbonizzazione imporrà, occorre rilanciare il ruolo fondamentale del trasporto pubblico locale, nonché proteggere i diritti e le condizioni dei lavoratori”.