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Tutto è cominciato con il decreto-legge 201 del 2011, noto come decreto Monti o Salva Italia. La salvezza del Paese passava, tra le altre cose, dalla liberalizzazione degli orari e delle aperture degli esercizi commerciali, già introdotte in via sperimentale dall’ultimo Governo Berlusconi e poi definitivamente sancite dal suo successore.
La deregulation di orari e aperture nel commercio è andata in scena a partire dal primo gennaio 2012 e da allora, con la costante contrarietà dei sindacati e una serie di proposte di modifica e di abrogazione cadute nel vuoto, è restata la norma.
24 ore al giorno, tutti i giorni dell’anno, domeniche e festività incluse: un regime pensato per incrementare la libera concorrenza, far crescere i consumi in un periodo di recessione e di ben scarsa capacità di spesa che avrebbe dovuto rafforzare ipermercati e centri commerciali, ma che di fatto ha solo decretato la crisi di migliaia di esercizi e ha peggiorato la qualità della vita di tutti i lavoratori coinvolti, senza risollevare le sorti delle grandi superfici.
La festa non si vende, afferma la Filcams Cgil già dal 2010, ribadendo questa posizione con campagne di sensibilizzazione che da allora accompagnano tutte le date in rosso del calendario, che per molti lavoratori sono nere come tutte le altre. La richiesta del sindacato è semplice, chiudere i festivi e regolamentare le domeniche.
“Che la festa non si vende lo ricordiamo in primo luogo al governo, perché faccia un passo indietro sulla liberalizzazione di orari e aperture, precedentemente regolamentate dalle Regioni, che a loro volta le demandavano ai Comuni - spiega Alessio Di Labio, segretario nazionale Filcams Cgil - ogni territorio contrattava in base alle sue peculiarità e necessità e adesso, in un mercato che deve rispondere alle esigenze dei cittadini, del territorio e dei lavoratori, a decidere sono solo le imprese”.
Poi è arrivata la pandemia e ha travolto il commercio con un anno di chiusure e riaperture complicate, fine settimana blindati, fatturati crollati. Tanti esercizi hanno gettato la spugna, solo l’alimentare ha avuto addirittura un incremento nel 2020, ma le previsioni per il 2021 non sono altrettanto rosee.
“Non diciamo soltanto no al lavoro festivo – aggiunge Di Labio – se dobbiamo ricostruire una società dalle macerie di questa pandemia, che sia una società sostenibile, non limitiamoci a tornare a quello che avevamo prima”. Rivedere i tempi e i modi del commercio, ripensare il ruolo dei centri commerciali, riflettere sull’apertura continua di strutture sempre più grandi, “un processo concorrenziale che non tiene minimamente in considerazione la sostenibilità ambientale, urbana e sociale” sottolinea il segretario nazionale Filcams.
Se i nuovi colossi creano occupazione, al tempo stesso il loro arrivo mette in crisi i centri commerciali preesistenti, dove invece il lavoro va perso, lasciando il territorio consumato dalle strutture cadute in disuso. A trainare questo movimento, con le sue ricadute economiche e sociali, è proprio quel modello di commercio che si fonda sulle aperture 365 giorni l’anno, un ingranaggio che procede grazie al sacrificio dei dipendenti.
Durante queste festività pasquali segnate dalle limitazioni dell’emergenza sanitaria e dall’estensione della zona rossa a tutto il territorio nazionale, sarà il segmento alimentare a restare operativo, con distinguo tra i diversi marchi: chi resta sempre aperto, chi solo la mattina di domenica, chi il giorno dopo, pochi resteranno chiusi.
È utile ricordare che i lavoratori chiamati ad essere presenti anche il 4 e il 5 aprile sono gli stessi che non hanno fatto pause dall’inizio della pandemia, che si sono trovati esposti al rischio del contagio dal primo momento, quando i dispositivi di protezione personali erano scarsi e le norme comportamentali ancora incerte, facendo fronte alle richieste di un’utenza spaventata e disorientata che ha affollato i punti vendita in preda all’ansia del lockdown. E che anche quando le protezioni sono state perfezionate e diffuse, il rischio del contatto con il virus non è mai venuto meno del tutto e, nonostante questo, per loro non è stata ancora considerata la priorità di vaccinazione.
Alle loro spalle ci sono anni di riorganizzazioni, procedure di mobilità, orari flessibili. Che la festa non si vende andrebbe ricordato anche ai consumatori, a chi va a fare shopping la domenica e a chi non può fare a meno di spingere il carrello del supermercato la mattina di Pasqua. “È una battaglia culturale – conclude Di Labio – che per la Filcams vale la pena di combattere”.