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“Vogliamo cambiare il volto delle politiche economiche e sociali e delle scelte strategiche di questo Paese. Il lavoro buono e dignitoso non è un esito della crescita, semmai è il contrario: la crescita è possibile solo se il lavoro è dignitoso, qualificato e anche ben retribuito”.
Parola di Tania Scacchetti, segretaria confederale Cgil, per la quale il contrasto alla precarietà è il tema centrale della piattaforma unitaria e delle tre mobilitazioni di maggio decise da Cgil, Cisl e Uil. Perché senza pratiche inclusive, senza solidarietà e senza la riunificazione delle condizioni di lavoro non si va da nessuna parte. “Nelle assemblee la dico così: dobbiamo fare una battaglia che veda i lavoratori alzare la testa per rivendicare il giusto posto del lavoro nella creazione dei processi di emancipazione ma anche nella costruzione della società del futuro”.
La precarietà è data da tanti elementi e altrettanti fattori, dall’abuso dei tirocini extracurriculari ai part-time involontari, dalle false partite Iva alla discontinuità. In che modo è possibile depotenziarli?
Le leve sono sostanzialmente tre. La prima è il cambiamento del modello di sviluppo: gli investimenti e la logica che accompagnano le scelte non devono più essere basati sulla competizione sui costi e sui diritti, dove il lavoro paga il prezzo più alto. I grandi piani di assunzione, gli investimenti pubblici e privati devono essere basati sul principio della piena e buona occupazione, sul contrasto per esempio alla cooperazione spuria, allo sfruttamento dei lavoratori, al lavoro nero e sottopagato. In questo senso pensiamo a un diverso ruolo dello Stato.
E il secondo asse?
È di tipo regolativo e giuridico. Veniamo da anni nei quali la legislazione ha favorito la logica della frammentazione, la riduzione dei diritti è stata la chiave per rendere il nostro Paese competitivo. Dobbiamo invertire la tendenza, disboscare le forme precarie, rafforzare quelle che mettono insieme lavoro e formazione, a partire dall’apprendistato come unica forma di ingresso nel mercato per le giovani generazioni.
E poi c’è una terza leva. Qual è?
È quella contrattuale. I luoghi di lavoro, dove si costruiscono e si rivendicano con azioni forti tutti gli interventi, devono diventare sempre più luoghi di vertenze collettive, dove la condizione dei singoli si pone come rivendicazione di tutti. È questa la pratica della contrattazione inclusiva, che ha l’obiettivo di allargare ed estendere i diritti, di unificare le condizioni lì dove queste sono altamente frammentate. Solo così possiamo dare una prospettiva diversa al nostro Paese.
Quello dell’inclusività è un aspetto molto importante, che però chiama in causa direttamente i sindacati promotori della piattaforma. Qual è il ruolo di Cgil, Cisl e Uil?
Sappiamo che il processo dell’inclusione è difficile e credo che la Cgil sia un po’ più avanti rispetto alle altre organizzazioni confederali. Naturalmente ogni categoria è titolare della contrattazione nella propria specifica area di rappresentanza. Ci sono molti esempi e pratiche che dimostrano come quando si tengono insieme condizioni diverse anche per rappresentanze diverse, si producono effetti migliori sulla contrattazione, più duraturi e solidi. Penso ad Amazon, ai rider, alle vertenze dei metalmeccanici, al settore della ceramica.
Il mercato del lavoro oggi si presenta frammentato e destrutturato. Quali interventi sono necessari per contrastare questo fenomeno?
La stabilizzazione dei lavoratori nei cicli produttivi è fondamentale. L’abuso del tempo determinato e del part-time, del lavoro autonomo e del finto autonomo ha portato a questa destrutturazione. Ma la nostra contrattazione ha punte di avanzamento molto più ampie di quelle che riusciamo a raccontare. È una strada da cui non si può tornare indietro e sulla quale dobbiamo insistere, affiancandola con la contrattazione sociale territoriale, lo sviluppo che favoriamo sul territorio e per il territorio sui temi fiscali, dei diritti, del welfare.
Ultime ma non meno importanti, le questioni dell’aumento dei salari e dei rinnovi contrattuali. Quali sono le rivendicazioni dei lavoratori e dei sindacati?
Quella salariale è l’altra grande questione, decisiva in un contesto come quello attuale in cui il nostro Paese sta conoscendo indici di inflazione che non si vedevano da anni e che stanno erodendo i redditi. Dobbiamo rinnovare i contratti collettivi nazionali di lavoro, sapendo che in alcuni settori e ambiti abbiamo difficoltà a rispettare tempi e scadenze, tanto che questi ritardi deprimono il valore stesso del contratto collettivo, nel privato come nel pubblico. Veniamo dalla chiusura della stagione del triennio 2019-2021 e dobbiamo aprire quella 2022-2024 ma non ci sono le risorse. Il governo e le nostre controparti devono dare un segnale netto, l’aumento dei salari non può essere considerato un problema per la spinta inflattiva, dobbiamo dare fiato e sostanza alle retribuzioni dei lavoratori e ai redditi dei pensionati per far ripartire la domanda interna e sostenere i consumi della parte prevalente della popolazione.
Questo discorso si intreccia con le politiche fiscali. Come?
In Italia i lavoratori e i pensionati sono quelli che paradossalmente pagano più di tutti, contribuiscono in misura maggiore di altri all’Irpef, la tassazione che sostiene lo Stato Sociale e costituisce il patto fiscale tra cittadino e Stato. Bisogna spostare il prelievo dalle retribuzioni e dal lavoro alle rendite e ai profitti, soprattutto quelli che si sono generati in modo improprio con le speculazioni: agire in questa direzione significa rimettere davvero al centro il lavoro.