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Li hanno scortati fuori dal cancello, davanti agli sguardi increduli dei colleghi. Licenziati in tronco, senza preavviso, perché il loro contributo non era più utile all'azienda. Poco importa che i due lavoratori “accompagnati alla porta” siano entrambi invalidi al 75% e che a 50 anni per loro ritrovare un lavoro sia un'impresa quasi impossibile. Alla Mercedes Benz Italia, evidentemente, questo non interessa.
Ivano è uno dei due lavoratori licenziati a febbraio 2019 nel centro logistico di Capena, importante stabilimento del colosso tedesco dell'auto di lusso. Fa fatica a parlare, non solo per il morbo di Parkinson che lo ha colpito 9 anni fa, ma perché la rabbia e la disperazione gli salgono in gola insieme alle parole. “Quando mi hanno convocato per darmi la lettera di licenziamento pensavo fosse uno scherzo – ci racconta – perché fino al giorno prima andava tutto bene, non c'era stata nessuna avvisaglia. Invece, mi hanno chiamato nell'ufficio del caporeparto e mi hanno detto che il mio lavoro non serviva più e che non sapevano dove ricollocarmi, quindi mi hanno accompagnato fuori dai cancelli, come fossi un ladro, davanti a tutti i colleghi”.
Ivano fino a 6 anni fa lavorava nel magazzino, poi, vista la sua malattia invalidante, era stato spostato in ufficio, a gestire le bolle dei pezzi di ricambio che tornano indietro. Un lavoro adatto a lui, che comunque – ci spiega – era sempre disponibile a fare tutto quello che gli veniva chiesto. Ora è disoccupato, invalido, con due bambine piccole, entrambe con problemi di salute.
Certo, in virtù della legge Fornero, il suo licenziamento gli varrà un indennizzo, probabilmente anche consistente, visto che Mercedes non ha di certo problemi di liquidità, ma questo non basta a tranquillizzarlo: “A 51 anni, invalido al 75%, con i problemi delle mie bambine – si dispera – come faccio io adesso? La notte non dormo più, ho gli incubi e la malattia mi sembra peggiorata. Penso di aver dato tanto in 18 anni all'azienda, perché mi hanno trattato così?”.
L'altro lavoratore licenziato ha 55 anni e 8 anni fa ha avuto un ictus. In sede di riabilitazione ha imparato a scrivere con la sinistra, dice con orgoglio. Fa molta fatica a parlare e preferisce non rilasciare dichiarazioni, almeno finché la questione dell'indennizzo non sarà conclusa. Certo è, che anche per lui, l'umiliazione di essere accompagnato fuori dalla "sua" azienda ha lasciato il segno.
A portare alla luce questa storia, così drammatica, è Stefano Chiaraluce, sindacalista della Filcams Cgil di Roma e Lazio. “Mercedes è una realtà florida – ci spiega – Sia a Capena che a Roma facciamo contrattazione integrativa per distribuire premi e incentivi. Insomma, abbiamo relazioni sindacali consolidate. Ma quando si presentano situazioni come questa, licenziamenti individuali ex Fornero (e non è la prima volta) la multinazionale è un muro di gomma. Non hanno né l'obbligo, né la volontà di confrontarsi con il sindacato – continua Chiaraluce – Hanno i conti in regola, ma sensibilità pari a zero: come è possibile che una multinazionale come Mercedes, che solo su Roma conta 500 dipendenti, non riesca a trovare una posizione per due lavoratori?”.
Ma è davvero possibile che anche soggetti “deboli”, perché portatori di invalidità gravi, non abbiano strumenti di difesa di fronte alla decisione dell'azienda di licenziarli per motivi oggettivi? Lo abbiamo chiesto a Mara Parpaglioni, avvocata giuslavorista di Roma: “È indubbio che di fronte ad un licenziamento per motivi oggettivi oggi è molto difficile ottenere la reintegra – spiega la legale –, tuttavia, esiste una direttiva europea (la 78/2000), basata su una convenzione Onu, poi recepita, in forte ritardo, dalla normativa italiana con tanto di condanna della Corte di giustizia europea. Questa norma tutela i lavoratori e le lavoratrici con handicap, imponendo al datore di lavoro di mettere in atto tutti i ragionevoli accomodamenti all'organizzazione del lavoro (turni, orari, mansioni ecc.) per permettere alle persone con difficoltà di superare i loro problemi e mantenere il posto, o anche di avere avanzamenti di carriera”.
“Quindi – continua Parpaglioni – nel caso in cui il datore di lavoro non dimostri di aver messo in essere tutti questi accomodamenti, o a meno che l'onere economico per attuarli risulti eccessivo, si può configurare un licenziamento discriminatorio, che dà diritto alla reintegra. Ci sono già alcune sentenze – conclude l'avvocata –, anche se ancora in Italia la normativa è poco conosciuta”.