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Tre milioni e ottocentomila posti di lavoro in meno entro dieci anni, solo in Italia. Rimpiazzati dall’intelligenza artificiale. Questa la previsione di un recente report a cura dell’Osservatorio del Politecnico di Milano. Il World Economic Forum, invece, pronostica 14 milioni di posti di lavoro bruciati su scala planetaria nei prossimi cinque anni. Scenari apocalittici. Dobbiamo avere paura? E quanta? Lo abbiamo chiesto al filosofo Mario De Caro, docente di filosofia morale all’Università Roma Tre ed esperto della materia.
La prima risposta che ci dà lascia intendere che sì, è il caso di preoccuparsi: “I dati - ragiona De Caro - non riguardano solo l'Italia. È naturalmente un problema globale, con lievi differenze tra le previsioni di questo o quell'istituto. Però tutti concordano su un fatto: un buon numero di lavori scompariranno, un altro numero ben più alto sarà modificato profondamente, una piccola percentuale di lavori resterà immutata e infine emergeranno mestieri nuovi”.
Ma il saldo sarà positivo o negativo?
È una questione che si può discutere. Già qualche anno fa, nel 2015, Ignazio Visco, allora governatore della Banca d’Italia, scrisse un libro in cui prospettava la possibilità che per la prima volta il progresso tecnologico, invece di migliorare le condizioni occupazionali e soprattutto di combattere la disoccupazione, la provocasse. Questo rischio esiste. Ma non dobbiamo fermarci alla questione dei lavori che spariranno. La vera questione riguarda come debbano comportarsi le società, i governi, le comunità di fronte a questo fenomeno.
Qual è, secondo lei, la ricetta?
Mi sembra del tutto ovvio che in una situazione del genere bisognerà tornare a ripensare la redistribuzione del reddito. È evidente che la strategia di diminuzione del Welfare State sia catastrofica. Perché, in una fase di grande trasformazione, intere categorie perderanno il lavoro o avranno molta più difficoltà a trovarne uno.
Può fare un esempio?
L'esempio canonico è quello dei conducenti di autoveicoli. In America è il comparto più grande, sono 8 milioni di lavoratori e si prevede che tra un paio di decenni al massimo saranno tutti sostituiti da veicoli a guida autonoma, molto più economici (non gli devi pagare stipendi o ferie, e non si ammalano), e soprattutto più sicuri. È solo un esempio. La società dovrà farsi carico di intere categorie di lavoratori. Per questo bisognerà ripensare il welfare. E bisognerà ripensare il sistema dell'educazione, offrendo strumenti non soltanto alle giovani generazioni, con programmi scolastici che le mettano in condizione di dominare le nuove tecnologie, ma anche agli adulti, con modalità di formazione permanente che li tengano al passo di un progresso sempre più accelerato.
Il lavoro potrà essere ancora centrale, nella definizione di un’identità, di un percorso di vita, nell’era delle macchine? O lei intende che occorrerà più welfare, e quindi forme di reddito di cittadinanza, per rimpiazzarne l'assenza “strutturale”?
Reddito di cittadinanza certamente sì, ma in senso autentico, come è stato proposto da Philippe van Parijs e altri teorici. Non quello annacquatissimo, sostanzialmente un miserrimo sussidio di disoccupazione, che abbiamo elaborato in Italia. Ma un reddito che permetta a tutti coloro che perdono il lavoro di poter sopravvivere decentemente nell'attesa di riqualificarsi per trovarne un altro. Perché non arriveremo forse mai alla situazione che immaginava Karl Marx, ossia a una società in cui l'essere umano si sveglia e va a pescare perché tanto lavorano le macchine. Questo non succederà per varie ragioni.
Ce ne dica almeno una.
Le dico la principale: ossia che i profitti, al contrario di quello che immaginava Marx, sono distribuiti molto male, cioè il progresso tecnologico ha comportato un’ulteriore divaricazione della forbice tra i super ricchi e tutti gli altri. Questa mancata redistribuzione delle risorse rende impossibile immaginare una società senza lavoro. Per questo la situazione diventerà drammatica, se appunto non si permetterà alle persone di riqualificarsi per trovare nuovi lavori che esisteranno e saranno necessari, ma per i quali occorreranno specifiche competenze. Tutti dovranno essere alfabetizzati all'intelligenza artificiale. Si calcola infatti che meno del 20 per cento degli attuali mestieri rimarrà così com’è oggi.
Dei “sommersi” e dei trasformati abbiamo parlato e letto molto. Non c’è in pratica quasi nessun mestiere immune dalla rivoluzione IA. Operai, colletti bianchi, traduttori, interpreti, web designer, professionisti… Ma in quel 20 per cento di “salvati” chi c’è?
Molte mansioni nel settore dell’edilizia. Oppure, nella ristorazione, i grandi chef, per fare un altro esempio. Inoltre, ancora adesso l'intelligenza artificiale ha difficoltà con la micro manualità. I produttori di scarpe hanno problemi a creare macchinari in grado di inserire i lacci nei passanti. Anche la sartoria resisterà. Questo genere di artigianato rimarrà. Sono giusto degli esempi per farsi un'idea.
Tra quanto tempo la IA non avrà più bisogno di essere addestrata o impostata da esseri umani?
Rispondere a questa domanda significa chiedersi quando arriverà la “singolarità”, cioè quel (presunto) momento futuro in cui emergerà una super intelligenza generale, quando l'intelligenza artificiale non opererà solo in ambiti specifici e separati, ma supererà quella umana e si renderà autonoma. Nick Bostrom, un filosofo molto famoso ma forse eccessivamente millenarista e pessimista, ha sondato pochi anni fa mille suoi colleghi che in media hanno previsto che il momento della singolarità avverrà tra 25-45 anni a partire da oggi. Questo è del tutto verosimile se non porremo dei limiti alle modalità in cui l'intelligenza artificiale si svilupperà, se non mettiamo già adesso dei vincoli alle possibilità di sviluppare tecnologia IA. Ma va fatto ora, o sarà troppo tardi.
Il Parlamento europeo, lo scorso 13 marzo, lo ha fatto licenziando l’AI Act, un impianto di norme e regolamentazioni piuttosto all’avanguardia. Cosa ne pensa?
È un regolamento che limita in parecchi ambiti la ricerca sull’intelligenza artificiale, proprio per proteggere la privacy e la sicurezza dei cittadini, e allo stesso tempo per garantire la possibilità di sviluppare sì IA, ma in direzioni moralmente accettabili. È un passo rilevante, ma queste sono cose che vanno oltre l'Europa. Sono temi che bisognerebbe affrontare a livello globale, esattamente come avviene con l'inquinamento ambientale. Spero che le Nazioni Unite o altri organismi internazionali riescano a coordinare gli sforzi in questa direzione.
Forse, su un piano internazionale, dire che la IA sta eliminando posti di lavoro è impreciso. Forse li redistribuisce, o ne crea di nuovi altrove. In Africa, negli ultimi anni, sono stati creati migliaia di posti di lavoro nell’ambito del machine learning. Sembra che si stia affermando una nuova divisione globale del lavoro digitalizzato. Non trova?
In parte è vero. Però questo comporta gli stessi rischi che ha comportato la delocalizzazione del tessile negli ultimi decenni, con multinazionali che hanno abusato di legislazioni assenti o carenti per sfruttare la manodopera locale, ricorrendo anche al lavoro minorile. Questa modalità si sta in parte replicando nell’addestramento della IA. Orari infernali, paghe da fame, eccetera. Quindi, va bene, sono state create nuove mansioni, però non ci si può accontentare di questo, perché le condizioni di lavoro sono preoccupanti.