“In un qualsiasi Paese ‘normale’, 20 mesi consecutivi di calo della produzione industriale avrebbero già costretto un qualsiasi governo a prendere atto dell’urgenza di invertire radicalmente la rotta”. È da questa premessa che parte la riflessione del segretario confederale Cgil Pino Gesmundo, rimarcando che “in Italia, invece, continuiamo ad assistere a questa falsa narrazione del governo che insiste nel parlare di record occupazionali, di crescita della ricchezza e di un Paese con un’autorevolezza a livello internazionale che non ha precedenti”.

L’iniziativa di Milano del 5 novembre scorso, intitolata “L’intelligenza del lavoro per un nuovo modello di sviluppo e per fermare i licenziamenti”, è stata un momento importante di analisi dell’intera Cgil sulle difficoltà del tempo presente. Qual è stato il trait d’union dei numerosi interventi?

Una delle motivazioni che ci ha convinto a dare la parola alle delegate e ai delegati di tutti i settori industriali è stata proprio quella di cercare di riportare quella narrazione a termini di concretezza e realtà: il Paese vero non è quello descritto dalla presidente Meloni e dai suoi ministri, Urso in primis, ma quello vissuto dalle decine e decine di lavoratrici e lavoratori che hanno preso la parola a Milano.

IMAGOECONOMICA
IMAGOECONOMICA
Pino Gesmundo (IMAGOECONOMICA)

E che Italia ci hanno raccontato?

Queste donne e uomini ci hanno detto che dietro i dati sull’occupazione esaltati dal governo si nascondono precarietà e part-time involontari, che le ore lavorate continuano a diminuire, che il ricorso alla cassa integrazione ordinaria aumenta pericolosamente (quasi sei milioni e mezzo di ore rispetto allo stesso periodo del 2023). E che, come certificato anche dall’Istat sul calo dei consumi dei beni durevoli, esiste un macroscopico problema salariale e di capacità economica delle famiglie, sempre più in difficoltà.

Da Milano, dunque, quale messaggio è arrivato al governo?

A Milano abbiamo prodotto un grandissimo esercizio collettivo di verità e denuncia che andrebbe ascoltato e non dileggiato, vilipeso o offeso da chi, come il ministro Salvini, cerca continuamente di comprimere il diritto di sciopero. Ci siamo assunti anche la responsabilità di indicare all’esecutivo e al Paese quali possono essere le soluzioni per uscire da questa crisi profonda.

E al governo cosa chiedete?

All’esecutivo chiediamo la costituzione di un’agenzia per lo sviluppo sostenibile, l’introduzione di un nuovo ammortizzatore sociale “per la transizione”, la riduzione dell’orario di lavoro anche come leva per governare i processi di riconversione industriale, una diversa politica energetica e ambientale, nonché investimenti straordinari in ricerca e innovazione.

Nel documento della segreteria nazionale presentato a Milano si evidenziano come la crisi climatica, le transizioni ambientale e digitale, le politiche industriali, abbiano una valenza sovranazionale, chiamino in campo direttamente l’Europa. Cosa chiede la Cgil a Bruxelles?

Nelle proposte che avanziamo per superare la crisi, c’è ovviamente un forte richiamo al ruolo dell’Europa, a cominciare dalla costituzione di un Fondo sovrano europeo che sostenga un piano di politiche industriali continentali. Anche alla luce dei Rapporti Letta e Draghi, è necessario che sia l’Europa a guidare il riassetto dell’economia del nostro continente.

Come si dovrebbe concretizzare questa guida?

Questo deve avvenire attraverso politiche industriali comuni: stiamo parlando di investimenti quantificabili da 500 a 900 miliardi di euro annui per dieci anni. Ciò implica la creazione di un fondo sovrano europeo che possa aiutare a trasferire la notevole ricchezza privata presente in Europa dalla finanza all’economia reale, oltre a individuare altre forme di finanziamento europeo tramite sovvenzioni specifiche.

È davvero così necessario avere risorse comuni?

Certamente. Solo creando risorse comuni saremo in grado di competere con i continenti asiatico e americano, evitando di perdere la sfida in corso. D’altronde, è ormai evidente che i rischi per l’Europa sono enormi. Il Pil prodotto in Europa rispetto a quello degli altri continenti è in calo da decenni, non possiamo dare per scontato che il nostro continente rimarrà centrale nell’economia mondiale. Affinché ciò avvenga è fondamentale che gli Stati comprendano l’entità della sfida in corso e accettino di impegnarsi attivamente, a cominciare ovviamente dal governo italiano.

Avete già appuntamenti a Bruxelles?

Sì, la prossima settimana a Bruxelles incontreremo rappresentanti delle associazioni datoriali e sindacali europee e delle commissioni Industria, commercio, fisco, ambiente e sicurezza alimentare: a ognuno di loro illustreremo i termini delle nostre proposte per uscire da una delle crisi più profonde degli ultimi decenni.

Venendo allo specifico delle politiche industriali, è ormai evidente a tutti, perfino a Confindustria, che nel nostro Paese queste siano totalmente assenti…

Se anche la più grande associazione datoriale italiana, Confindustria, abbandona l’incanto di una falsa narrazione e inizia a denunciare, senza mezzi termini, la grave situazione in cui versano il Paese e il suo sistema produttivo, parlando di consumi in calo, di riduzione dell’export e di una “ripartenza” debole o assente, e di un “futuro fosco”, ciò significa che le motivazioni che abbiamo posto alla base dello sciopero generale del 29 novembre contro una legge di stabilità sbagliata non erano poi così tanto “pretestuose o strumentali”, come raccontano da Palazzo Chigi e dintorni.

Il documento dedica un capitolo specifico al Mezzogiorno, non mancando però di rimarcare che a soffrire è l’intero Paese. Cosa servirebbe?

Il Paese ha bisogno di una scossa, di un vero e proprio piano straordinario che affronti questa crisi profonda e che indichi soluzioni per una crescita sostenibile, a partire dal Mezzogiorno, i cui indicatori tornano a essere allarmanti. L’ultimo rapporto Svimez 2024 evidenzia chiaramente che, terminata la fase di spinta post-Covid e gli effetti del Pnrr, il Sud nei prossimi due anni vedrà allargarsi ulteriormente la forbice del Pil (+0,8% a fronte dell’1,1% del Centro-Nord) con una riduzione del salario reale (-5,7%) addirittura più alta che nel resto del Paese.

Quali iniziative, allora, intendete mettere in campo nei diversi territori?

È proprio a partire dal Mezzogiorno, sempre più depresso e ai margini dei grandi processi produttivi, che intendiamo dare impulso alla nostra campagna sulle politiche industriali. Abbiamo già in cantiere tre grandi iniziative di mobilitazione regionale nelle tre principali aree del Paese, iniziative che intenderanno rafforzare le nostre rivendicazioni e, nel sistema diffuso delle relazioni territoriali, cercare di ampliare sempre di più il consenso sulle nostre proposte di uscita dalla crisi.

La crisi, appunto, sta coinvolgendo tutta l’industria italiana. Dall’automotive all’energia, dai trasporti al tessile-abbigliamento, dagli elettrodomestici alla chimica e alla conceria, non c’è comparto produttivo che non veda chiusure di aziende e ondate di licenziamenti.

I dati sulla produzione industriale indicano che, a parte alcuni timidi segnali di resistenza nel settore delle industrie alimentari, le altre attività legate al settore secondario evidenziano una crisi profonda e, sfortunatamente, inarrestabile. L’insieme delle attività manifatturiere, dal tessile (-10%) all’automotive (-9,2%), passando per la metallurgia (-3,7%) fino alla fabbricazione di macchinari e attrezzature (-4,2%), offre la rappresentazione di un Paese non solo statico, ma immerso in una totale recessione. Una crisi alla quale il governo sceglie di dare risposte che ne aggravano ulteriormente gli effetti, come nel caso della riduzione di oltre quattro miliardi di euro proprio sul settore automotive.

L’automotive, tra le dimissioni di Tavares e le grandi difficoltà di Volkswagen, sta attraversando un periodo molto complicato...

Le dimissioni di Tavares dalla guida di Stellantis e lo sciopero in Volkswagen contro la chiusura degli stabilimenti in Germania sono un ulteriore campanello d’allarme sulla necessità di sviluppare politiche industriali europee all’altezza della sfida mondiale sul riassetto geopolitico del settore manifatturiero e sui rischi che il nostro continente sta correndo. Non c’è più tempo: l’Europa e il nostro Paese devono guidare la transizione ambientale sostenendo l’industria per garantire una giusta transizione.

Come si può intervenire?

È fondamentale promuovere e proteggere le imprese che si distinguono per produzioni innovative e di qualità, orientate al futuro. Questo potrebbe avvenire anche attraverso la partecipazione pubblica nel capitale e nel governo delle stesse, sia direttamente sia tramite le società partecipate. È essenziale introdurre nei bandi di gara criteri selettivi e precisi affinché gli incentivi siano destinati a quelle imprese che hanno la capacità di avviare un autentico processo di cambiamento, innovativo, di qualità ed ecosostenibile.

In conclusione: il Paese, quello “reale”, come sta?

Bisognerebbe smetterla di raccontare un Paese che non c’è. Si affronti la realtà e si assumano profili di concretezza e responsabilità, che segnino una netta discontinuità con le pratiche vuote messe in atto dal governo fino a oggi. È tempo di dire basta con questo atteggiamento autoassolutorio o, ancor peggio, di deresponsabilizzazione del governo, come nel caso del ministro Urso, che invece di assumersi l’onere di affrontare e risolvere le numerose crisi industriali che quotidianamente si aprono decide semplicemente di trasferire la responsabilità di gestione alle Regioni.