PHOTO
Le lavoratrici e i lavoratori del terziario e del turismo vanno in piazza, venerdì 22 dicembre, nel giorno dello sciopero dei sindacati di categoria per chiedere i rinnovi dei contratti nazionali, scaduti ormai da oltre tre anni per cinque milioni di addetti. Dietro le richieste sindacali, che vengono ribadite con forza, come sempre ci sono le storie delle persone, di tutti coloro che quei settori li portano avanti ogni giorno: i lavoratori. Proprio a loro ci siamo rivolti, per capire qual è la situazione nei luoghi di lavoro e perché lo sciopero è più che mai necessario. Una donna che opera nel turismo, un uomo impiegato nel commercio raccontano le loro vicende.
Assunta: nel mio hotel col salario bloccato
Assunta Pirrera è impiegata presso l’hotel Westin Palace di Milano, che fa parte della catena Marriot, e delegata della Filcams Cgil. “Lavoro qui dal 1996, sono quasi trent'anni – esordisce -. Ho sempre fatto il part-time per una scelta di famiglia e figli. All’inizio i nostri erano alberghi a cinque stelle, di lusso, all’interno c’era molto personale e ognuno aveva le sue mansioni. Nell'arco di dieci-quindici anni le cose sono cambiate radicalmente: il nostro non era più visto come personale qualificato, i lavoratori si sono progressivamente ridotti. Si vede chiaramente la differenza tra gli anni precedenti e oggi: ora mi sento molto meno qualificata, come se lavorassi in un qualsiasi esercizio commerciale. E il salario non è mai aumentato”.
Ecco quindi il nodo delle retribuzioni, una delle ragioni dello sciopero. “È cresciuto il costo della vita ma non lo stipendio, così non c’è equità – fa notare Assunta -. Nel 2009 fu firmato un accordo integrativo: la proprietà di Marriot aveva proclamato licenziamenti a livello nazionale, poi siamo rientrati a lavoro ma con un’organizzazione molto diversa. Prima c’era il maître di sala, il nostro lavoro aveva un certo valore ed era più riconosciuto, ora tutti facciamo tutto”.
Senza contare che gli hotel hanno affrontato il Covid. “Siamo stati in cassa integrazione, fermi per quasi due anni – racconta -. Però negli ultimi anni c’è stata una bella ripresa, il budget è stato recuperato: la gente ha ricominciato a viaggiare, lo vediamo ogni giorno. È cambiata la clientela perché le tariffe sono state riviste al ribasso, ma le entrate ci sono e i contratti si possono rinnovare”.
Un altro problema riguarda i giovani. “Bisogna coinvolgerli nelle nostre battaglie – riflette la lavoratrice -, però abbiamo troppi contratti a tempo determinato, a queste condizioni diventa più difficile protestare. Non c’è neanche un tempo prestabilito per avvisare il ragazzo se verrà rinnovato o meno, insomma così non è facile. Io – conclude - andrò alla manifestazione di Milano con moltissime mie colleghe”.
Mattia: al supermercato la flessibilità selvaggia
Mattia Felletti lavora alla Coop di Schio (Vicenza), è rappresentante Rsa per la Filcams. “Sono cresciuto qui dentro – dice -: ci sono da diciotto anni, nel tempo ho visto cambiare l’ipermercato così come è cambiato tutto il mondo del commercio. Oggi i problemi sentiti di più dalle lavoratrici e lavoratori del punto vendita sono le difficoltà dei ritmi, i carichi di lavoro, il problema di conciliare lavoro e vita privata perché la flessibilità è selvaggia. Con la liberalizzazione delle domeniche, poi, negli ultimi dieci anni lavoriamo sabato e domenica. Così è davvero complicato stare con la famiglia”.
La situazione è molto preoccupante. “C’è gente sfiancata sul piano fisico, psicologico ed economico. Sentire che i contratti sono sotto attacco dispiace molto – riflette Mattia -, perché a noi il nostro lavoro piace, ma chiediamo dignità e rispetto. Per questo sono molto amareggiato: mi dispiace per ciò che sta succedendo, a livello sociale non è la strada giusta. Però ci fa piacere la grande solidarietà arrivata da altre categorie, ci fa capire che non siamo soli”.
Anche i supermercati hanno affrontato il Covid, anzi più di altri. “Siamo rimasti sempre aperti, non ci siamo mai tirati indietro, purtroppo abbiamo perso dei colleghi vittime del virus. All’inizio la grande distribuzione era l’unico luogo di ritrovo per le persone: siamo stati addetti alle vendite, ma anche psicologi per chi usciva a fare la spesa. Sono stati momenti difficili”.
Anche per questo è ancora più ingiusto il trattamento attuale. “Non abbiamo chiesto niente in pandemia – riprende Mattia -, ci chiamavano eroi ma non lo siamo, siamo solo uomini e donne che chiedono un salario dignitoso e conciliare il lavoro con gli impegni famigliari”. Lo scenario dei settori “è una cosa epocale: abbiamo oltre cinque milioni di persone senza contratto, la possibilità di rinnovare c’è perché i ricavi sono aumentati. Non vogliamo pagare gli errori fatti da altri – conclude -, saremo davvero tanti in piazza, è una responsabilità di noi lavoratori e cittadini, per difendere i nostri diritti e quelli dei nostri figli, le generazioni future”.