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La stima (più accreditata) è da brividi: 700 mila. È questa la cifra dei licenziamenti attesi da giovedì 1° luglio, quando scadrà il divieto entrato in vigore il 17 marzo 2020 (con il cosiddetto decreto “Cura Italia”) per evitare che la pandemia provocasse una gravissima crisi sociale. Crisi che, come appunto ci dicono i numeri divulgati dalla Banca d’Italia, sembra purtroppo solo rimandata. “Aprire ai licenziamenti è del tutto sbagliato”, commenta il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, rimarcando che domani (sabato 26 giugno) i sindacati saranno in piazza anche, e soprattutto, per questo. “Bisogna prorogare il blocco fino a ottobre – aggiunge – in modo da riformare gli ammortizzatori e permettere un’uscita graduale. Senza la proroga sono a rischio centinaia di migliaia di persone: non sarà facilissimo trovare il giorno dopo un nuovo lavoro e riqualificarsi”.
Ma come si arriva alla cifra di 700 mila? “In condizioni normali, in assenza dello shock collegato al Covid-19, nel 2020 in Italia si sarebbero avuti circa 500 mila licenziamenti per motivi economici”, si legge nello studio “Alcune stime preliminari degli effetti delle misure di sostegno sul mercato del lavoro” redatto dai ricercatori della Banca d’Italia. Tenendo conto che “lo shock ha colpito in modo più intenso comparti nei quali la quota di lavoratori a tempo indeterminato è relativamente contenuta, si può stimare che, in assenza delle misure introdotte, nel 2020 lo shock pandemico avrebbe potuto causare ulteriori 200 mila licenziamenti, portando quindi il totale a circa 700 mila unità”. A rischiare maggiormente, precisa la ricerca, sono i lavoratori a tempo indeterminato delle piccole imprese: il 70 per cento dei licenziamenti dovrebbe avvenire in aziende con meno di 15 dipendenti, con una larghissima predominanza di quelle con meno di cinque dipendenti.
A fine mese, dunque, verrà eliminata la cassa integrazione per Covid-19, quindi decadrà anche il divieto di licenziare. A poterlo fare per “giustificato motivo oggettivo” saranno anzitutto le grandi aziende, mentre dal 1° novembre il divieto finirà anche per le piccole. Dal 1° luglio lo sblocco (contenuto nel dl 41/2021, meglio noto come “decreto Sostegni”) riguarderà le imprese industriali, manifatturiere e dell’edilizia, e in genere tutte le società che rientrano nel campo di applicazione della cassa integrazione ordinaria. Le imprese che si avvarranno degli ammortizzatori sociali, che dal 1° luglio in poi saranno “scontati” (ossia non si dovranno pagare le addizionali fino al 31 dicembre prossimo), dovranno impegnarsi a non licenziare. Dal 1° novembre, infine, potranno licenziare anche i datori di lavoro che utilizzano l’assegno del Fondo d’integrazione salariale (Fis), dei Fondi bilaterali alternativi, il trattamento della cassa in deroga e quello della cassa integrazione degli operai agricoli a tempo indeterminato (Cisoa).
“Lo sblocco dei licenziamenti apre una nuova ferita sociale in tutto il Paese e si farà sentire in particolare nel Mezzogiorno, dove sono aperte, tra l’altro, alcune delle più gravi crisi industriali. La Whirlpool di Napoli, ad esempio, dal 1° luglio potrà licenziare lavoratrici e lavoratori che da tempo si battono per difendere l’occupazione”. Così il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, sottolineando che i sindacati “non pensano a un blocco che duri all'infinito”, ma nello stesso tempo ritengono che “i licenziamenti non possano diventare lo strumento per riorganizzare le imprese”.
Per il leader sindacale adesso bisogna “prendere tempo per proteggere il lavoro e crearne di nuovo. Ed è anche il momento in cui le imprese dovrebbero assumersi delle responsabilità per evitare la rottura sociale”. Da qui la giornata di mobilitazione di domani (sabato 26 giugno), convocata “per dire che il movimento sindacale ha idee precise su come uscire dalla pandemia e costruire un Paese fondato sulla giustizia. Al governo chiediamo anzitutto di prorogare il blocco dei licenziamenti e accelerare la riforma degli ammortizzatori sociali, ma lo sollecitiamo anche sulla riforma fiscale, la riforma delle pensioni e sugli investimenti necessari per creare lavoro”.
A rischiare maggiormente sono i dipendenti dei settori più colpiti dalla pandemia. Il sistema moda, anzitutto: la Filctem Cgil nazionale ha calcolato che la crisi ha colpito il 30 per cento delle imprese (con punte del 50 nel calzaturiero), si prevede quindi un’ondata di circa 150 mila licenziamenti nei diversi rami produttivi (dal tessile-abbigliamento alla pelletteria, dall’occhialeria alla concia), cui potrebbero aggiungersi altri 20 mila esuberi nel comparto artigiano. Licenziamenti che riguarderanno principalmente il personale femminile, che rappresenta quasi il 90 per cento della manodopera. Un’emorragia di posti di lavoro su cui sindacati e Confindustria già nel settembre scorso avevano lanciato l’allarme, firmando un avviso comune in cui chiedevano la proroga della cassa-Covid per l’intero 2021. Appello che, però, è rimasto inascoltato.
Ma non c’è solo il tessile, purtroppo. Ad avere patito la crisi sono il commercio (dove nel primo quadrimestre 2021 si è registrato un aumento addirittura del 674 per cento di ore di cassa integrazione, rispetto al medesimo periodo del 2020), i trasporti e le comunicazioni, il mondo dei servizi, il turismo e la cultura. Tutti comparti composti perlopiù di piccole aziende e microimprese, per le quali il divieto di licenziare decadrà il 1° novembre. Difficile la situazione anche per quei settori “che la crisi – spiega un recente report di Area Studi Legacoop e Prometeia – potrebbe aver lasciato più in difficoltà (alberghiero, ristorazione, catering)”, dove con il “venir meno del blocco potrebbe manifestarsi un problema occupazionale che si sommerebbe alle perdite già accumulate”.
A soffrire, infine, sono anche i comparti industriali dell’automotive e della siderurgia, su cui pesano anche endogene crisi strutturali, composte di profonde trasformazioni produttive (ad esempio, il progressivo passaggio all’auto elettrica), transizione tecnologica, aumento dei costi delle materie prime, riorganizzazione delle filiere globali, disarticolazione e delocalizzazioni della componentistica.