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Gli impianti inquinanti dell’ex Ilva di Taranto, la cosiddetta area a caldo, vanno chiusi al più presto. Lo ha deciso l’altro giorno, con apposita sentenza, il Tar di Lecce, che ha confermato un’ordinanza di chiusura emessa dal sindaco di Taranto il 27 febbraio 2000, respingendo il successivo ricorso da parte di ArcelorMittal, che nel frattempo ha già preannunciato un nuovo ricorso, stavolta al Consiglio di Stato.
In sostanza, secondo il Tar, “è provato che i fenomeni emissivi indicati nell'impugnata ordinanza sono stati determinati da malfunzionamento tecnico, difettosa attività di monitoraggio e di pronto intervento, nonché criticità nella gestione del rischio e nel sistema delle procedure di approvvigionamento di forniture e di negligente predisposizione di scorte di magazzino". Dalle risultanze dell'istruttoria, continua il tribunale del Salento, "si evince altresì che tali criticità e anomalie possono ritenersi risolte solo in minima parte e che, viceversa, permangono astrattamente le condizioni di rischio del ripetersi di siffatti gravi accadimenti emissivi, che, del resto, non possono certo dirsi episodici, casuali e isolati”.
Immediata la reazione del sindacato. "La sentenza del Tar di Lecce mette in evidenza tutte le criticità e le fragilità dello stabilimento siderurgico pugliese, inclusa l'assoluta assenza di scelte programmatiche sul futuro ambientale e industriale di Taranto - dichiara la Rsu Fiom -. La sentenza del 13 febbraio ripercorre i fatti in maniera chiara e inequivocabile con dati incontrovertibili emersi dalle relazioni di Arpa Puglia, Aress e Ispra, quest'ultima evidenziando lacune da parte di Arcelor Mittal su eventi emissivi in atmosfera dovuti ad anomalie impiantistiche, a una serie di carenze e di criticità tecniche degli impianti, soprattutto dei sistemi di controllo, oltre che all'assenza di componenti tecniche immediatamente disponibili in magazzino come scorta per l'immediato intervento e risoluzione dell'anomalia sopraggiunta nell'agosto del 2020”.
Per i metalmeccanici della Cgil, "ArcelorMittal non ha fatto nulla per superare tali criticità e, ad oggi, non riscontriamo alcun cambio di passo, nonostante le tante segnalazioni indirizzate anche ai commissari straordinari di Ilva in As (proprietaria degli impianti), a seguito delle ispezioni sullo stato manutentivo degli impianti. Il tempo è ormai scaduto. Riteniamo inaccettabile il continuo ricatto occupazionale, perpetrato da ArcelorMittal per fini esclusivamente di carattere economici e produttivi. Infatti, la multinazionale continua a gestire la fabbrica attraverso costanti e pesantissimi tagli al costo del lavoro a discapito dell'ambiente, della prevenzione legata alla sicurezza, dello stato manutentivo degli impianti e di migliaia di lavoratori collocati in cassa integrazione”.
“L'intervento pubblico al 50% per il 2021, con l'ingresso di Invitalia nel capitale sociale di ArcelorMittal, deve segnare un cambio di passo radicale e il Governo deve necessariamente riaprire sul tema del piano ambientale, attraverso il riesame dell'Aia e l'introduzione delle linee guida della valutazione di impatto sanitario preventivo. Serve immediatamente un comitato tecnico scientifico, come quello istituito in occasione della pandemia, per dare risposte ad un territorio fortemente colpito e ferito da anni di inquinamento industriale", rilevano ancora le tute blu.
Che cosa succederà ora? “Con la sentenza del 13 febbraio del Tar di Lecce - risponde Gianni Venturi, segretario nazionale Fiom, responsabile della siderurgia -, la vicenda della multinazionale franco-indiana torna nel gorgo della giustizia amministrativa; il rigetto dei ricorsi provocherà l’immediato avvio delle procedure di spegnimento dell’area a caldo di Taranto, che si deve concludere entro sessanta giorni.
“L’impianto in questione - il più grande d’Europa - senza l’area a caldo non ha ragione di esistere. Lo spegnimento coinciderà con la chiusura di tutte le produzioni, non solo nella città pugliese, ma anche negli stabilimenti di Genova e Novi Ligure. Perdipiù, in una fase in cui filiere strategiche come automotive ed elettrodomestico, fortemente integrate nella catena globale del valore, sono già in sofferenza nell’approvvigionamento dell’acciaio. A questo punto, si rischia oggettivamente la destabilizzazione di una parte non marginale dell’industria manifatturiera italiana”, osserva ancora l’esponente della Fiom.
“Tutto ciò, ovviamente, non solleva ArcelorMittal dalle pesanti responsabilità nei ritardi dell’innovazione dei processi e nella sostenibilità delle produzioni – prosegue il dirigente sindacale -. Ma sarebbe altrettanto grave responsabilità non avere la corretta percezione degli interessi strategici in gioco e del necessario bilanciamento fra diritti costituzionalmente tutelati, come la salute e il lavoro. Perché non può essere derubricata a un aspetto tutto sommato secondario la ricaduta occupazionale che ne deriverebbe: stiamo parlando di oltre ventimila lavoratori fra diretti e indiretti nell’insieme del gruppo”.
“Quindi, è necessario un intervento urgente di Governo e Parlamento, che assicuri una transizione equilibrata ed esigibile verso una sostenibilità ambientale delle produzioni, capace di contenere in sé anche i vincoli della sostenibilità occupazionale. Tanto più oggi, che quella prospettiva può essere inserita all’interno di un quadro di investimenti europei inedito nella sua dimensione, come quello legato al Recovery found”, conclude il sindacalista.
Nel frattempo, Fiom, Fim e Uilm, a livello unitario, hanno già chiesto un intervento urgente da parte del nuovo governo Draghi, previa lettera indirizzata ai ministri dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, del Lavoro, Andrea Orlando, della Transizione ecologica, Roberto Cingolani e dell'Economia e Finanze, Daniele Franco. A questo punto, non c’è davvero più tempo da perdere.