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Se la città di Mantova è un piccolo gioiello di 50 mila anime, la sua ubertosa provincia si estende per più di cento chilometri. Queste terre fertili che dettero i natali a Publio Virgilio Marone sono coltivate oggi come allora, donano alle tavole degli italiani meloni sopraffini, dolcissime angurie, e ancora pomodori, pere, anche il riso.
Si tratta di uno dei più importanti distretti agricoli del Centro Nord, con un export di tutto rispetto vista la qualità delle produzioni. Se una volta a lavorare le terre c’erano gli schiavi di guerra sconfitti dalle legioni romane, oggi sono i migranti a faticare dall’alba al tramonto in queste grandi distese racchiuse fra il Po, il Mincio, l’Oglio, il Secchia e il Sarca, i cinque fiumi che contribuiscono a fare della città lombarda un paradiso per gli enogastronomi.
Da queste parti la Flai fa sindacato di strada, perché insieme a tante luci ci sono anche tante ombre negli appezzamenti agricoli che punteggiano il territorio. Il sindacato lotta per assicurare diritti e tutele agli operai agricoli perché non tutti hanno un contratto regolare. Più che lavoro nero è lavoro grigio, gli operai migranti vengono sottopagati non conteggiando le ore di straordinario, o conteggiandone meno di quante effettivamente svolte, tagliando i necessari riposi, eccetera.
A differenza di quanto succede nel Mezzogiorno, nella campagna mantovana i braccianti non vivono quasi più accampati in baraccopoli, abitano nelle case lasciate libere dai coetanei italiani che se ne sono andati a vivere altrove, e non sono corpi estranei alla vita quotidiana di paese. Ma quando si parla di diritti diventano invisibili, al pari dei migranti che affollano le campagne pugliesi, campane, laziali.
Quando il furgone della Flai guidato da Alberto Semeraro si ferma al ciglio della strada, insieme al segretario generale lombardo del sindacato ci sono Jean René Bilongo, presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto e responsabile nazionale immigrazione, il segretario provinciale Ivan Papazzoni e Alessio Aliatis, volti ben conosciuti dai lavoratori della zona, sempre prodighi di consigli mentre distribuiscono acqua fresca e cappelli di paglia ai lavoratori che vengono incontro.
Papazzoni conosce questo territorio come le sue tasche. Si fa tappa a Curtatone, luogo storico della prima guerra di indipendenza italiana, e poi a Rodigo. In lontananza si vede un trattore che procede lentamente fra i campi, dando il tempo agli operai di raccogliere le angurie e i meloni per poi caricarli sul rimorchio agganciato al mezzo meccanico. La selezione è impietosa, a terra rimangono tanti frutti feriti dalle ultime, violente grandinate di mezza estate. Eppure sembrano meloni buoni come gli altri, la tentazione di raccoglierne un paio per fare festa a tavola la sera è grande. I lavoratori arrestano la marcia per bere e mettersi in testa i cappelli di paglia della Flai, l’esperto Papazzoni spiega loro che tra breve inizieranno le procedure per ottenere la disoccupazione agricola, “un diritto che devono esigere”. C’è scritto sui volantini distribuiti un po’ ovunque, in modo chiaro e in più lingue.
Molti di questi ragazzi arrivano dal subcontinente indiano, i volti segnati dalla fatica nel lavoro nei campi, una naturale diffidenza che svanisce con la prima stretta di mano e con la progressiva consapevolezza che il sindacato è arrivato qui per loro, per aiutare l’anello più debole di una filiera ricchissima, ma ancora afflitta dal virus dell’illegalità.
“Spesso questi ragazzi hanno paura a denunciare le loro condizioni di lavoro, temono di perderlo, e a cascata di non poter rinnovare quel preziosissimo permesso di soggiorno senza il quale tornerebbero nella più completa invisibilità”, riflette Semeraro mentre il furgone riprende il suo cammino e arriva a Sermide. Qui i lavoratori provengono soprattutto dal nord Africa, molti dal Marocco, sono più diffidenti, cercano di nascondersi dietro le serre. Temono che i capi li vedano parlare con il sindacato. Ma quelli della Flai hanno la testa dura, non è gente disposta ad arrendersi. “Denunciare fenomeni di sfruttamento significa anche aiutare le aziende virtuose, quelle che aderiscono alla Rete del lavoro agricolo di qualità. Il valore dei prodotti deve essere anche dato dal rispetto del lavoro”.
Parole che pesano, in un territorio dove le indagini della magistratura e delle forze dell’ordine hanno accertato l’esistenza di un caporalato ‘moderno’, non come quello comunemente inteso ma un meccanismo che va dal lavoro grigio ai turni estenuanti, dalle cooperative fittizie alle agenzie di intermediazione, organizzazioni che pur lavorando in una cornice di apparente legalità somministrano manodopera alle aziende violando gli appalti e la contrattazione collettiva nazionale.
Tutti dati raccolti dall’Ispettorato nazionale del lavoro, grazie a periodici controlli sul campo. Storie raccolte nel quaderno dell’Osservatorio Placido Rizzotto ‘Geografia del caporalato’, fotografia senza filtri di un’ illegalità diffusa, da nord a sud della penisola. Così non è stata una sorpresa la notizia, arrivata a inizio agosto, della scoperta di quattro lavoratori moldavi impiegati nella raccolta delle angurie in un’azienda agricola di Sermide che, alla richiesta di esibire i documenti di identità, li hanno consegnati falsi. Di nazionalità rumena, quindi apparentemente comunitari.
“Queste sono vittime - osserva Jean Renè Bilongo - sono lavoratori circuiti da organizzazioni criminali che usano la tratta dei migranti per fare affari, come hanno rilevato anche l’ Unione Europea e l’Ocse. Arrivano dalla Moldavia, un paese poverissimo. Non è un caso che finiscano vittime della tratta”.
Da una casa colonica ai bordi della strada si affaccia una signora di una certa età, ha i bigodini in testa. Chiede il perché di questo trambusto, le viene spiegato cosa sta facendo il sindacato. Annuisce, alla fine scatta una foto, chiede e ottiene un cappello di paglia targato Flai e ci lascia con un’osservazione pertinente: “Siamo stati poveri anche noi, sappiamo cosa vuol dire far fatica raccogliendo la frutta. Voi siete bravi a dare informazioni a questi ragazzi. Perché se prima o poi si arrabbieranno per come vengono trattati, non so come andrebbe a finire”.