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"Abbiamo chiesto l’incontro in prefettura perché si valutasse la chiusura dello stabilimento: qui c’è un problema di salute all’interno del sito ma anche all’esterno, nel territorio. Sapete cosa ci hanno risposto? Che non si chiude, perché i positivi con molta probabilità si sono contagiati altrove, perché nel paese ci sono attualmente meno casi rispetto al periodo del lockdown, e perché i posti in terapia intensiva sono liberi, se dovesse essercene bisogno”. Siamo a Vazzola, nel trevigiano, nello stabilimento Aia dove un lavoratore su tre risulta positivo al Codiv-19: con 184 su 570 tamponi effettuati (di cui 181 senza sintomi), e 150 ancora da testare, il sito dell’azienda leader nell’industria alimentare di pollame è oggi uno dei maggiori focolai italiani.
Rosita Battain, segretaria Flai Cgil di Treviso, è preoccupata: “L’allarme è scattato a Ferragosto, con tre operai che hanno mostrato sintomi – racconta -. Da lì l’indagine a tappeto: si è passati dai 22 contagiati su 30 del reparto interessato, ai numeri di oggi. Nel frattempo, però, il virus ha circolato: i lavoratori (la maggior parte di origine straniera, senegalesi, marocchini, nigeriani, rumeni) hanno famiglia, spesso numerosa, sono bene inseriti nel comune in cui vivono, hanno relazioni sociali. Questo pone un problema di salute pubblica”.
Adesso agli operai andare al lavoro fa paura. All’inizio della pandemia i protocolli anti contagio sono stati rispettati, i lavoratori operano bardati dalla testa ai piedi, ma poi qualche difetto nelle procedure c’è stato: nelle aree comuni, in mensa, negli spogliatoi. “Senza contare che la temperatura hanno iniziato a misurarla all’ingresso dello stabilimento solo dalla fine della scorsa settimana – spiega un lavoratore -. Ci dicono che siamo tutti negativi, ma noi pensiamo che ci sia qualche positivo tra noi e questo ci terrorizza. Ma perché non possiamo chiudere per una settimana o anche solo per un paio di giorni, il tempo necessario per sanificare tutto per bene e completare i test? La direzione ci ha risposto che l’igienizzazione viene fatta tutti i giorni. Ma allora ci devono spiegare come sia possibile che ci sono tanti positivi”.
Già, il punto è questo: perché non è possibile fermare la produzione, chiudere in attesa di avere un monitoraggio preciso e che la situazione si normalizzi? All’incontro in prefettura le ragioni dell’azienda hanno vinto: nello stabilimento di Vazzola ogni giorno vengono macellati 120mila polli. Interrompere le attività comporterebbe l’abbattimento di un milione e mezzo di capi, pratica che avrebbe grandi ripercussioni sul fronte igienico sanitario. Ma soprattutto una perdita economica di milioni di euro per l’Aia. “E sapete perché? Questi polli sono programmati per avere una crescita rapida – spiega Sabrina Giannini, giornalista specializzata sui temi ambientali e autrice di inchieste di denuncia -. Dopo un tot di giorni, di norma 42, il loro petto si ingrossa così tanto che le zampe non li reggono più. Gli animali devono essere macellato altrimenti si ammalano. È per questo che la produzione industriale di pollame non si può fermare. Siamo al paradosso. Mettiamo a rischio la salute delle persone, dei lavoratori e delle loro famiglie, e di un intero territorio, per un sistema produttivo che è insostenibile. Non è naturale che la vita di un pollo abbia una scadenza: se fosse naturale non ci sarebbero problemi a farlo vivere per altre due settimane. Ma attenzione, la legge lo consente, è tutto normato”.
Insomma, si può rischiare di allargare ulteriormente il contagio in un’azienda e in un territorio per garantire il profitto che deriva da un sistema di produzione a dir poco aberrante? Evidentemente sì, con buona pace di chi dovrebbe contenere i focolai e tutelare la salute.