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A un lavoratore si chiede di saper fare il proprio mestiere. E di farlo bene. Tanto più se si guadagna da vivere occupandosi della salute e della vita degli altri. Ma saperi e buona volontà dei singoli non bastano e quando si scontrano con stati di forza maggiore, si rischia il cortocircuito. In queste ore e in questo Paese medici, infermieri e operatori sanitari di ogni tipo stanno certamente dimostrando di conoscere il loro mestiere e di saper farlo bene, persino con abnegazione. Salvo misurarsi con limiti che vanno al di là della cattiveria di un virus venuto da Oriente, più frutto della stupidità maturata in Occidente. Con il risultato di veder snaturato il senso del proprio mestiere.
Si chiama “medicina delle catastrofi”, è un protocollo che indica agli operatori sanitari come comportarsi in caso di guerre, disastri naturali, epidemie incontenibili e tragedie di simile natura. Quando l’umanità incontra i propri limiti, o – meglio – quelli dell’architettura sociale che ha costruito. Detto più volgarmente, quando l’organizzazione sanitaria non è in grado di far fronte a catastrofi di dimensioni troppo grandi per i propri limiti strutturali. Così a medici e infermieri viene spiegato come scegliere tra chi curare e chi no, tra chi salvare e chi lasciar morire: se c’è un solo un respiratore e due a contenderselo... quello sì, l’altro no. E siccome siamo pur sempre animali il cui primo istinto è garantire la continuità della specie, l’indicazione è di “lasciare andare” i più deboli, i più vecchi, quelli che hanno un quadro clinico che non assicura la sopravvivenza. Contraddicendo il senso del mestiere di chi lavora per salvare vite, rendendo vani il loro saperlo fare e la loro abnegazione.
Periodicamente l’umanità crede di essersi emancipata dalla propria natura e dai suoi vincoli; con la scienza, la tecnologia, il progresso. Periodicamente ci accorgiamo che scienza, tecnologia e progresso non sono neutrali, vanno da una parte o dall’altra. E che sono gli umani a dover decidere il lato giusto o sbagliato.
In questi giorni migliaia di medici, infermieri e operatori sanitari italiani sono alle prese con anni di tagli alla spesa sanitaria. Come gli alpini dell’Armir spediti in Russia con gli scarponi dalle suole di cartone, tra mascherine che mancano e sale di rianimazione all’osso, viene loro chiesto di comportarsi come in guerra, di assumersi la responsabilità di scegliere chi salvare e chi no. Quando potranno finalmente non doverlo più fare, quando saranno nuovamente liberi di esercitare il loro mestiere facendolo bene come sanno, restituiranno a tutti noi le responsabilità di cui si stanno caricando. Non per chiederne il conto ma per non ripetere i soliti e consueti errori di una società troppo spesso smemorata. Che non casualmente sacrifica gli anziani, i portatori della memoria.