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In principio fu il lockdown. Iniziò così la più grande sperimentazione di “lavoro da casa” che si fosse mai vista in Italia. “Lavoro da casa, da non confondere con lo smart working”, ci tiene subito a sottolineare Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil.
Di intelligente, di “smart”, nel lavoro da remoto di quei terribili mesi a cavallo tra la fine dell’inverno e l’estate del 2020 non ci fu quasi nulla. Tanto cuore, tanta voglia di fare la propria parte, nonostante tutto, tanto stress. Tantissima confusione. Costretti da un’emergenza che non ha lasciato alcuno spazio alla cura dei particolari nei quali organizzare la prestazione, lavoratrici e lavoratori si sono ritrovati a dover affrontare le lunghe ore della giornata chiusi in casa con figli piccoli o disorientati che reclamavano attenzioni. Ad accontentarsi di connessioni scadenti, computer domestici vecchi, lenti e superati (quando c’erano). A ritagliarsi spazi angusti. E poi, in seconda battuta, a sopportare accessi alla rete moltiplicati dalle esigenze di famiglia, tra riunioni e dad. Un vero inferno.
Ma è proprio da questo caos primordiale che è nato qualcosa di estremamente concreto. Un concetto si è insinuato nella consapevolezza di tutti gli attori. Lo smart working non poteva restare una parentesi legata alla pandemia, ma rappresentava ormai un punto di non ritorno, un elemento che non poteva più essere tolto dal tavolo, né riportato alla nicchia in cui era relegato negli anni precedenti. Lo smart working era ed è ormai, in modo sempre più consolidato, una possibilità di svolgimento della prestazione lavorativa per ampie fasce di popolazione, compresi molti dipendenti dei settori pubblici.
“La pandemia ha tolto il velo, rendendo evidenti alcune possibilità, alcune tendenze e anche alcune grandi assenze nel nostro sistema. La lunga stagione di emergenza è stata il detonatore. La questione è esplosa nella riflessione collettiva e ci ha aiutato a superare convinzioni vecchie. Tra i dirigenti del settore pubblico soprattutto – ricorda Tania Scacchetti – una lunga tradizione alla quale si richiamavano anche le concezioni del ministro Brunetta ha sempre sostenuto l’idea che la produttività degli impiegati statali fosse garantita solo attraverso la presenza. In realtà i dati in pandemia, molti mesi durante i quali lo smart working ha toccato punte dell’80, 90 per cento, ci dicono che la produttività è cresciuta al punto tale che persino il ministro, di recente, ha commentato positivamente i risultati”. Buon gioco a cattivo viso. Proprio Renato Brunetta, colui che anni fa aveva sublimato la retorica dello statale fannullone, si ritrova oggi a gestire una complessa trattativa che dovrà tenere conto dello smart working nei rinnovi dei contratti nazionali dei vari comparti dei servizi pubblici.
Qual è lo strumento per garantire i dipendenti in regime di lavoro agile ed evitare tutte le trappole e le improvvisazioni del lockdown? “Ovviamente la contrattazione – risponde Tania Scacchetti –. Il coinvolgimento dei lavoratori nel modello di smart working che si vuole definire, nell’organizzazione del lavoro, nel rapporto con le gerarchie. La loro responsabilizzazione. Nello specifico risolvere tutti i nodi. Dagli orari e quindi dal diritto alla disconnessione. Alla strumentazione. Dai buoni pasto. Ai costi della connessione e delle utenze. Costi fissi che sono diminuiti per i datori di lavoro. Come quelli legati alle mense e ai servizi di pulizia. E poi c’è un tema – sottolinea la dirigente della Cgil -. L’aumento della produttività deve portare a una redistribuzione, sia in termini di salario che nel miglioramento delle condizioni dei lavoratori”.
Ce n’è abbastanza per tenere gli occhi puntati sulle prossime elezioni delle Rsu dei settori pubblici e della conoscenza. Perché votare Fp e Flc, le categorie della Cgil? “Perché dietro c’è la Cgil. Con il suo portato di valori, le sue rivendicazioni e la sua idea di Paese. Un sindacato che lotta per la tutela nei luoghi di lavoro, ma anche per una trasformazione sociale. Noi siamo certi che le nostre delegate e i nostri delegati, soprattutto negli anni della pandemia, ci abbiano messo sempre la faccia, soprattutto nei settori pubblici, dove pure lo spazio di contrattazione integrativa e di discussione sull’organizzazione del lavoro è molto ristretto rispetto a quello dei settori privati. Eppure le Rsu della Cgil sono state in grado di incidere fortemente sull’emergenza, conquistando spazi di discussione centimetro dopo centimetro. Ne sono una dimostrazione i protocolli sulla sicurezza. Ci sono, ci siamo sempre stati. Anche di fronte alla rabbia legittima dei lavoratori, alle delusioni, alla rassegnazione. Credo che i nostri rappresentanti si siano assunti questo compito e che adesso, dopo due anni di lotte, gli vada riconosciuto”.