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Premesso che spesso è difficile raccontare bene i dati e farli “parlare” per quello che sono, questo è ciò che fa la Cgil ogni volta che analizza le cifre dell’occupazione: cerca la realtà, andando oltre gli annunci e la propaganda. Questa volta per capire se i toni trionfalistici usati dal governo sono fondati, ha messo a confronto i numeri degli ultimi quindici anni. Che cosa ha scoperto? Che c’è poco da festeggiare, che la crescita dell’occupazione è dovuta soprattutto all’aumento del lavoro precario e del part-time involontario e che ci ha messo lo zampino anche l’impatto demografico, con un calo della popolazione in età da lavoro.
Italia Cenerentola d’Europa
Partiamo dai numeri di ottobre 2023: 23,7 milioni di occupati, che corrispondono a un tasso del 61,8 per cento. Una buona notizia, certamente, ma siamo sicuri che vada tutto bene, si chiedono gli autori dello studio della Cgil, Nicolò Giangrande e Rossella Marinucci? Se facciamo il confronto con l’Ue, vediamo che il tasso di occupazione italiano è ancora il più basso d’Europa ed è molto inferiore rispetto a Germania (77,5), Francia (68,7), Spagna (65,8). Non basta. A renderci la Cenerentola d’Europa è anche il tasso di inattività, pari al 33,3 per cento, il più alto dell’Eurozona, decisamente superiore rispetto a quello tedesco (20,1), francese (26,2), spagnolo (25,6).
Calo demografico=meno lavoratori
Che ci sia davvero poco da festeggiare ce lo dice anche un altro elemento, quello del calo demografico: dal 2008 al 2023 il tasso di occupazione è cresciuto del 3,5 per cento (dal 58,3 al 61,8) ma è contemporaneamente diminuita drasticamente anche la popolazione in età da lavoro. Gli italiani tra i 15 e i 64 anni sono scesi di 1,7 milioni di unità.
Se la platea fosse rimasta quella di 15 anni fa, quell’aumento non sarebbe stato così marcato (cioè 3,5) ma molto più ridotto, ossia di 0,8 punti. “Questo mette in luce come la questione occupazionale in Italia, dal punto di vista demografico, abbia già assunto caratteristiche allarmanti” scrivono nello studio Giangrande e Marinucci, rispettivamente dell’ufficio economia e del mercato del lavoro della Cgil nazionale.
Aumentano i precari
Passiamo ai tanto sbandierati 23,7 milioni. È certamente un livello record, ma era stato già raggiunto in altri momenti. La quota degli occupati è stabilmente sopra i 23 milioni da marzo 2022 e l’abbiamo raggiunta e mantenuta anche in tre altri periodi: tra gennaio e settembre 2008, a maggio e giugno 2018, tra marzo 2019 e febbraio 2020. A ottobre di quest’anno l’aumento rispetto all’ottobre di 15 anni fa è di 709 mila occupati: crescono gli occupati dipendenti (di circa 1,5 milioni) e diminuiscono gli indipendenti (meno 743 mila).
Se però esaminiamo solo i due segmenti dell’occupazione dipendente osserviamo una curva in salita molto diversa: gli occupati a termine sono cresciuti enormemente (più 30,2 per cento) fino a raggiungere la quota di circa 3 milioni di unità, mentre quelli permanenti hanno registrato un incremento molto più contenuto (appena il 5,2 per cento). Quindi crescono gli occupati ma specialmente quelli a termine: il tasso di precarietà è salito dal 13,1 al 15,7 per cento, di quasi tre punti.
Cresce il lavoro povero
“La qualità del mercato del lavoro italiano versa in condizioni critiche e i dati del report Cgil lo dimostrano – afferma la segretaria confederale della Cgil Maria Grazia Gabrielli -. Per questo chiediamo al governo un cambio immediato delle politiche per favorire la crescita dell'occupazione di qualità. Innanzitutto garantire un lavoro dignitoso e giustamente retribuito. Poi va restituita centralità al lavoro a tempo indeterminato, vanno cancellate le forme di lavoro precarizzanti e contrastati gli abusi negli appalti”.
Bassa qualità
Nello studio Cgil si evidenza che nel periodo analizzato c’è stato un drastico peggioramento della qualità dell’occupazione, come dimostra la crescita del tasso di part-time involontario, il più alto dell’Eurozona, oltre che l’aumento complessivo dell’occupazione a termine. Stando ai dati Inps, rispetto al 2019 nel 2022 è salito in modo esponenziale il numero degli stagionali (21,9 per cento), dei somministrati (19,3) e dei tempi determinati (12,3). A questo si deve aggiungere anche la preoccupante crescita, registrata più recentemente, dei lavoratori intermittenti e di quelli impiegati con contratti di prestazione occasionale.
Meno ore lavorate
Un ultimo dato: quante ore lavora un dipendente. Nel terzo trimestre 2008 la media delle ore era di 413, nello stesso periodo di quest’anno, 402. Che vuol dire: 11 ore in meno pro capite, 219 milioni ore in meno in tre mesi rispetto a 15 anni fa. Quindi anche se ha un’occupazione ed è dipendente non è detto che quella persona lavori a tempo pieno. “È proprio il lavoro non-standard caratterizzato, fra i vari elementi, da una forte discontinuità contrattuale e da una bassa intensità – aggiungono Giangrande e Marinucci - che incide pesantemente sulle retribuzioni medie di oggi e inciderà, di conseguenza, anche sulle pensioni di domani”.
Servono risposte
“Vanno costruite risposte di maggiore solidità e tutela per contrastare la pratica del part-time involontario e definite tutele e diritti per professioniste e professionisti, autonomi ordinisti e non ordinisti che ancora oggi attendono l'operatività dell’equo compenso – conclude la segretaria confederale Gabrielli -. In definitiva solo procedendo a un cambio di impostazione si può scardinare la precarietà e la povertà del lavoro e dare così rilevanza a quel binomio inscindibile che è qualità e quantità dell’occupazione. Va in questa direzione anche la nostra proposta di un unico contratto di ingresso al lavoro, orientato alla formazione e con garanzia di stabilità”.