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Il Dpmc del 22 marzo individua le attività economiche che dovranno rimanere aperte durante l’emergenza sanitaria Covid-19, fornendo un elenco che mette insieme le attività fondamentali – per la natura stessa dei beni e servizi che queste producono (settore agroalimentare e sanitario, servizi pubblici primari, pubblica amministrazione ecc.) – e le attività essenziali, le quali forniscono beni e servizi intermedi alle prime, costituendo parte integrante della rispettiva filiera produttiva. Un articolo di Nadia Garbellini e Matteo Gaddi prova a fare chiarezza, evidenziando le criticità alla base di tale elenco e dell’approccio complessivo del governo, a partire da un’analisi input-output dell’economia italiana coi più recenti dati Istat a disposizione, relativi al 2016.
Le aziende superflue in attività
Innanzitutto, si evidenzia il potenziale esplosivo dell’art. 1, comma 1, lettera d del Dpcm, che consente a tutte le imprese “funzionali ad assicurare la continuità delle filiere delle attività” comprese nell’elenco governativo di rimanere aperte. In altre parole, rimarrebbero aperte non solo le aziende necessarie a garantire il funzionamento di attività fondamentali, quali il sistema sanitario e i supermercati, ma anche tutte quelle aziende che dichiarano di fornire beni e servizi alle attività essenziali. Questa parte del decreto rischia dunque di compromettere l’obiettivo di limitare l’attività d’impresa alle aziende che risultano imprescindibili in questa fase, con effetto negativo sulla curva dei contagi e sulla capacità di del Sistema sanitario nazionale. L’esercizio empirico dimostra peraltro che solo il 15,5% delle attività essenziali individuate dal governo è realmente a servizio delle attività fondamentali, mentre la parte rimanente (84,5%) della produzione non è destinata a supportare ospedali, supermercati, agricoltura e servizi pubblici primari.
L’operatività delle filiere fondamentali a rischio
Allo stesso tempo, l’analisi evidenzia anche l’incapacità dell’elenco governativo di tutelare l’operatività delle filiere fondamentali, individuando tutte le attività economiche necessarie al loro regolare funzionamento. Il 33,2% della capacità produttiva di tali filiere è infatti costituito da attività non essenziali, ossia non ricomprese nell’elenco del governo.
E i lavoratori?
Questi risultati possono essere convertiti e interpretati in termini di ore lavorate. Ne emerge un quadro chiaro quanto preoccupante: le ore lavorate necessarie a mandare avanti le attività fondamentali corrispondono al 31,8% del totale, mentre quelle attivate dal governo sono il 46,5% del totale e, per giunta, mal distribuite, nel senso che non ricomprendono tutte le attività necessarie a garantire il funzionamento dei nostri ospedali, supermercati, farmacie ecc. Per essere ancora più chiari proviamo a fornire ulteriori dati – elaborati da Garbellini e Gaddi a partire da una trasformazione delle ore lavorate in Unità di Lavoro (Ula), unità di misura calcolata riducendo il valore unitario delle posizioni lavorative a tempo parziale in equivalenti a tempo pieno – per capire la situazione in termini di lavoratori coinvolti.
Nella tabella in basso possiamo osservare la filiera delle attività fondamentali e i lavoratori rispettivamente riconducibili ad essa (prima colonna): questi 7,7 milioni rappresentano un’approssimazione degli occupati totali che dovremmo mantenere in attività per garantirne il pieno funzionamento. Questi sono, idealmente, tutti coloro che dovrebbero continuare a lavorare in questa fase emergenziale per garantire la sicurezza e la salute di tutti. Notiamo purtroppo che quasi un milione di occupati non sia tenuto in considerazione dal Dpcm (in grassetto nella terza riga).
Viceversa, il decreto governativo comporta il proseguimento delle attività fondamentali ed essenziali e implica che domattina circa 11,3 milioni di persone si recheranno complessivamente presso i propri luoghi di lavoro (il risultato è dato dalla somma dei totali delle prime due righe), nonostante non siano tutti impiegati nelle attività fondamentali o in quelle che fanno parte della filiera di queste ultime. Ben 4,5 milioni in più di quelli necessari (anche questi, in grassetto nelle prime due righe), che mettono a rischio gli sforzi di tutta la collettività per contenere il contagio.
In conclusione, l’approccio del governo risulta metodologicamente sbagliato. La procedura corretta sarebbe stata di partire dai settori fondamentali e, a cascata, individuare tutti i loro fornitori diretti e indiretti, indipendentemente dalla branca di afferenza. Nel tentativo di accontentare le pretese irresponsabili di Confindustria, il governo rischia di mettere in pericolo la salute pubblica. Nonostante le possibili ritorsioni, fanno bene i lavoratori a scioperare e il sindacato a dare il proprio pieno appoggio, fino a prendere tutte le misure ritenute necessarie per garantire la salute di tutti.
Giacomo Cucignatto, Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento Economia