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L’introduzione di sistemi di intelligenza artificiale in tutti i settori produttivi, secondo gli studi più recenti, determinerà effetti sul 60% dei lavoratori delle economie avanzate e sul 40% a livello globale. Ammesso e non concesso che i livelli occupazionali – nonostante l’incremento esponenziale della produttività – non si riducano a livello globale, certamente il mondo del lavoro subirà cambiamenti rilevantissimi.
Non si corre solo il rischio di sostituire alcune attività lavorative ripetitive di media e bassa complessità, ma che intere catene del valore e settori siano diversamente localizzati. In assenza di politiche industriali all’altezza, saranno le grandi multinazionali a determinare la nuova divisione del lavoro, ma soprattutto la sua qualità nella distribuzione planetaria.
Gli strumenti di IA, inoltre, aumentano l’efficienza delle imprese, comprimendo i tempi di lavoro e superando completamente processi prima assegnati al lavoro umano. Se si vogliono evitare un allargamento delle diseguaglianze e la riduzione delle tutele per lavoratrici e lavoratori, non si può accettare passivamente la subordinazione ai sistemi algoritmici, che non hanno nulla di asettico, o neutrale, e che anzi – fin qui – sono stati costruiti per massimizzare i profitti, comprimere i salari, precarizzare i rapporti di lavoro.
È quindi indispensabile ridefinire strumenti contrattuali e partecipativi, diritti e organizzazione del lavoro, competenze e formazione. Ed è fondamentale conquistare un nuovo protagonismo dei lavoratori, attraverso le organizzazioni che li rappresentano, agendo soprattutto la contrattazione di anticipo, perché intervenire a valle, dopo che tutto è stato deciso e impostato da parte delle aziende, sarebbe del tutto inefficace.
E ciò vale sia per il lavoro digitale, spesso altamente qualificato ma non per questo meno suscettibile di sfruttamento, al punto che si parla – a ragione – di nuovo proletariato digitale per descrivere le condizioni di chi lavora in questo ambito in condizioni di iper-precarizzazione e di misera paga oraria; sia per il lavoro più generale, su cui ricadono comunque i profondissimi cambiamenti in corso.
L’Unione europea ha normato alcuni aspetti del fenomeno, ma la regolazione del lavoro è ancora arretrata, ed eccessivamente differenziata tra i paesi comunitari. Nella definizione del Regolamento AI Act – per esempio – non si fa menzione della tutela collettiva dei lavoratori e non si prevede alcun ruolo per le parti sociali. Non si fa nemmeno accenno a specifiche Autority di controllo legale/amministrativo.
Sembra che avranno un ruolo regolatorio Agcm e Agcom. Potrebbe svolgere una funzione importante anche il Garante per il trattamento dei dati. Il quadro regolatorio, però, risulta debole e confuso, e queste autorità non sono, ad oggi, nelle condizioni di svolgere il tipo di funzioni di cui c’è urgente bisogno.
Ma non è solo il mondo del lavoro ad avere la necessità che questa trasformazione epocale sia governata, al fine di ridurre al minimo i rischi che porta con sé, e di coglierne tutte le eccezionali potenzialità. È interesse anche delle imprese, in particolare delle Pmi, delle aziende artigiane, delle attività del terziario e delle professioni.
È in corso da anni una trasformazione del mercato determinata da e-commerce e piattaforme digitali, con un’enorme concentrazione nelle mani di poche grandi multinazionali, che investono miliardi nelle nuove tecnologie e che hanno riscritto le regole del commercio e dei processi produttivi. Le imprese di piccola dimensione non sono in grado di reggere questa concorrenza.
Sono quindi decisive politiche industriali adeguate alla portata di questa sfida, per affrontare la quale è insufficiente la dimensione nazionale, ma occorre ragionare almeno a livello continentale. E noi, come Paese, dovremmo spingere decisamente in questa direzione.
Purtroppo, il governo sta invece facendo esattamente l’opposto, ipotizzando di frantumare – con il Ddl Calderoli sull’autonomia differenziata – le politiche pubbliche e annoverando anche la “ricerca scientifica e tecnologica” e il “sostegno all’innovazione per i settori produttivi” tra le materie che potrebbero passare alla potestà legislativa esclusiva delle singole Regioni. Parliamo di realtà istituzionali che non solo non hanno le dimensioni e la massa critica per misurarsi con questa vera e propria rivoluzione, ma che sono clamorosamente inadeguate anche dal punto di vista teorico e intellettuale.
L’Ue si sta effettivamente muovendo, e lo sta facendo nel verso giusto, con le “fabbriche di intelligenza artificiale”. Ecosistemi costruiti attorno ai supercomputer pubblici europei, ai quali Pmi e start-up avranno un accesso privilegiato, beneficiando di algoritmi e potenza di calcolo. Particolarmente importante, da questo punto di vista, la possibilità per le imprese di accedere agli spazi comuni dei dati in Europa (Common european data spaces).
La ricerca sull’IA e il suo sviluppo saranno sostenuti finanziariamente tramite Horizon Europe e il programma Europa digitale, con la generazione di un ulteriore investimento pubblico/privato di circa 4 miliardi di euro fino al 2027. Viene inoltre annunciata l’iniziativa GenA14EU per sostenere lo sviluppo verticale dell’intelligenza artificiale nel settore privato e pubblico.
Si tratta, evidentemente, di un primo, timido passo, se lo paragoniamo ai 10 miliardi di investimenti in IA della sola Microsoft, o ai 26,7 miliardi messi in campo dalla Cina. Sono cifre che ci danno la dimensione del fenomeno e che devono spingerci a recuperare il ritardo che abbiamo già accumulato, nello sviluppo di queste tecnologie e nel condizionamento del mercato.
Lungi da noi pensare che l’Intelligenza Artificiale possa essere eliminata dai processi produttivi e dal mondo del lavoro. Molte sue applicazioni miglioreranno senza dubbio, e nella maniera più significativa, le condizioni di vita delle persone. Si pensi, ad esempio, alle applicazioni mediche, alla ricerca scientifica, alla salute e sicurezza di lavoratrici e lavoratori.
Il tema però è come se ne regola l’utilizzo, come si determinano i limiti, come si evita che sia piegata allo scopo di un’ulteriore concentrazione della ricchezza e del potere in ancora meno mani, facendo sì che ne possa beneficiare l’intera collettività, a cominciare dalle classi popolari.
Per questo chiediamo che si avvii un confronto tra le parti per una valutazione di impatto, per una revisione dei modelli organizzativi, per intervenire su professioni, formazione, salario e durata della prestazione lavorativa. Quello di cui c’è bisogno non è un sostegno generico alle imprese senza condizionalità, ma una strategia di politiche industriali che indirizzi lo sviluppo, che spinga per processi formativi delle nuove professioni, che garantisca ammortizzatori sociali e politiche attive per accompagnare una giusta transizione del lavoro.
Si tratta di un processo dalle implicazioni enormi, che non può essere lasciato alle esclusive dinamiche di mercato, ma che va governato dalla politica, con l’obbiettivo di democratizzarlo e, soprattutto, di declinarlo socialmente. E non c’è solo il tema dell’aumento del plusvalore, che sicuramente verrà generato e che non può essere esclusivo appannaggio del capitale.
C’è tutto il resto, che non è poco: a partire dal controllo dei dati, per arrivare alla capacità di condizionare le opinioni e perfino i sentimenti, e quindi a minare alle fondamenta le democrazie. È questo il compito con cui ci misuriamo: abbiamo – come mai prima d’ora – tutte le conoscenze e gli strumenti necessari a migliorare le condizioni di vita e di lavoro di tutte e tutti, a rendere il nostro modello di sviluppo socialmente e ambientalmente sostenibile; vanno utilizzati nel modo giusto, smettendo di sacrificare sull’altare del profitto i diritti fondamentali delle persone.
Christian Ferrari, segretario confederale Cgil