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Nel 2003 i voucher vengono istituiti con la legge Biagi del secondo governo Berlusconi per retribuire i ‘piccoli’ lavori (domestici occasionali, di giardinaggio, ripetizioni scolastiche, etc) di coloro che venivano definiti ‘soggetti a rischio di esclusione sociale’. L’attività di durata complessiva doveva essere inferiore a 30 giorni all’anno e con compensi inferiori a 3.000 euro annui.
Nel 2008 il quarto governo Berlusconi consente una liberalizzazione dei voucher. Inizia la crescita del loro utilizzo di anno in anno esponenziale.
Nel 2012 il governo Monti cerca di contrastare l’abuso dei buoni lavoro, ma senza grande effetto. La somma annuale è portata a 5.000 euro, ma non più per singolo committente, bensì per la totalità dei committenti e quindi dei lavori svolti in un anno.
Nel 2015, con il governo Renzi, il limite economico netto viene innalzato a 7.000 euro.
Nel 2017 la Cgil, dopo una lunga campagna, deposita 1 milione e 100 mila firme per sottoporre l’istituto dei voucher a referendum abrogativo.
Nel marzo dello stesso anno il governo Gentiloni interviene sui buoni lavoro, riducendone drasticamente l’utilizzo. Una vittoria per il sindacato.
2022: con la legge di Bilancio del governo Meloni tornano i voucher per i settori agricoli e del turismo, innalzando il tetto a 10.000 euro e dilatando la platea degli utilizzatori alle aziende con non più di 10 dipendenti, mentre in passato la soglia era di 5.
Dimenticato dunque il pronunciamento della Corte Costituzionale del 2017: “l’evoluzione dell’istituto, nel trascendere i caratteri di occasionalità dell’esigenza lavorativa cui era originariamente chiamato ad assolvere, lo ha reso alternativo a tipologie regolate da altri istituti giuslavoristici e quindi non necessario”.