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“Sono favorevole per una questione di civiltà giuridica, per una questione etica. Riequilibrare i rapporti di potere tra lavoro e impresa è giusto in sé e conveniente economicamente”. Lo afferma il professor Giovanni Orlandini, docente di Diritto del lavoro presso il Dipartimento di Scienze politiche e internazionali dell'Università di Siena. Per il giuslavorista l’iniziativa referendaria della Cgil ha il merito di riportare il valore del lavoro al centro della discussione pubblica e di mettere un argine allo scambio scellerato tra diritti e occupazione. Scambio, peraltro, tutto in perdita visto che alla diminuzione dei diritti non corrisponde un aumento dell’occupazione.
La Cgil ha proposto quattro quesiti referendari sui quali sta raccogliendo le firme per poi sottoporli al voto nella prossima primavera. Partiamo dai primi due, quelli che intervengono sui licenziamenti, perché è favorevole?
Il primo dei due quesiti mira ad abolire quella parte del Jobs Act che ha previsto il superamento dell'articolo 18 per i lavoratori assunti dopo la sua entrata in vigore, il 7 marzo 2015, quindi il referendum prevede la pura e semplice abrogazione del decreto attuativo con la conseguente estensione dell'applicazione dell'articolo 18 a tutti i lavoratori e lavoratrici impiegati in aziende con più di 15 dipendenti. Mentre il secondo quesito estende l’applicazione dell’articolo 18 anche a lavoratori e lavoratrici impiegati in imprese fino a 15 dipendenti.
Sono favorevole a questi referendum perché sono sempre stato contrario alle riforme che hanno ridotto l'ambito di applicazione della tutela forte, per quanto limitata ai lavoratori nelle imprese più grandi. Ero e sono contrario al Jobs Act che, anche in caso di licenziamento illegittimo, cioè privo di giustificato motivo o di giusta causa, ha reso l'ipotesi della reintegra impossibile prevedendo come regola generale la tutela indennitaria. In coerenza quindi sono favorevole a un referendum che espande la possibilità per i lavoratori di ottenere la reintegrazione del posto di lavoro, sono favorevole all’espansione della reintegra il più possibile, sia per motivi giuridici che etici, di chi licenziato illegittimamente.
Se il lavoratore preferisce, per una pluralità di motivi ipotizzabili, non ritornare a lavorare, allora ha diritto che venga quantificato un risarcimento adeguato, alternativo alla reintegra, ma consentire al lavoratore di essere reintegrato se è licenziato illegittimamente lo trovo un principio di civiltà giuridica. Inoltre, garantire la stabilità dell'occupazione è utile anche a rafforzare la posizione del lavoratore
all’interno del rapporto di lavoro. La tutela reale è uno strumento che rafforza non soltanto la posizione del singolo lavoratore nei confronti dell'atto di licenziamento, ma è anche funzionale a rafforzare tutti i diritti sul luogo di lavoro. Se io so che non posso essere licenziato per arbitrio del mio datore di lavoro, potrò più serenamente esercitare tutti gli altri diritti che la legge e i contratti collettivi prevedono. Quindi è una norma cardine, è uno strumento essenziale per rafforzare la posizione dei lavoratori e delle lavoratrici.Tra i sostenitori del Jobs Act, però, è diffusa l'opinione che un mercato del lavoro così cambiato rispetto all'epoca dello Statuto dei lavoratori, e la stessa innovazione tecnologica, presuppongono una flessibilizzazione e una apparente diminuzione dei diritti che in realtà crea maggiore occupazione. Cosa c'è in questo ragionamento che non torna?
Non torna sul piano della logica, dei principi di diritto e - mi permetto anche se non sono economista - sul piano economico. L’affermazione che indebolire e ridurre i diritti dei lavoratori comporterebbe una maggiore occupazione è una cosa che viene ripetuta, ovviamente, da sempre e che non ha mai trovato riscontro oggettivo nelle reali dinamiche economiche. Ridurre diritti implica soltanto indebolire, precarizzare il mercato del lavoro. Certo, se un sistema produttivo si orienta verso la massima precarizzazione del lavoro, la massima compressione del costo del lavoro per competere nei mercati internazionali, quella è la strada da seguire, ma non credo sia una prospettiva seria per l’Italia. Insomma, comprimere il più possibile i diritti, la precarizzazione senza limiti servono a ridurre la forza contrattuale dei lavoratori e dei sindacati e così a permettere alla politica di contenere il costo del lavoro recuperando quella competitività perduta quando ci si è posti in fondo alla filiera della produzione. Ma non è così che si crea occupazione, e comunque, se pure fosse, sarebbe inaccettabile. I dati sono lì a dimostrare che la riduzione dei diritti crea – al massimo – lavoro povero. E, comunque, utilizzare questo presunto scambio tra diritti e lavoro per renderlo accettabile è un argomento miserrimo.
Anche gli altri due quesiti referendari mirano a tutelare i diritti. Il terzo vuole reintrodurre un tetto ai contratti a tempo determinato, il quarto mette in testa alla capofila degli appalti la responsabilità lungo la catena dei subappalti. Insomma i diritti come faro all'interno del mercato del lavoro.
Quando parliamo di referendum è bene ricordare sempre che in Italia sono solo abrogativi, quindi è chiaro che in quello sugli appalti, ad esempio, si è andati a toccare una delle poche disposizioni che si poteva aggredire con referendum. Lo stesso vale per quello sui contratti a termine. È chiaro che ci vorrebbe una riforma complessiva, però anche su questi ultimi due quesiti il segno mi sembra abbastanza chiaro, quello dei diritti, come diceva lei. Sui contratti a termine il punto chiave è reintrodurre il principio, che peraltro trova sostegno anche sul piano del diritto dell'Unione Europea, che un contratto a termine per essere legittimo deve essere fondato su delle esigenze di carattere temporaneo.
Il governo Meloni ha eliminato l’obbligo di causale per il primo anno di contratto. Abrogando quella parte della normativa che appunto esclude le causali per i primi 12 mesi si espande il principio per cui comunque il contratto a termine non può durare più di due anni. Al di là della tecnicità, l’obiettivo è quello di porre un argine all'utilizzo del contratto a termine laddove non sia oggettivamente necessario utilizzarlo.
Il quesito sugli appalti è forse tecnicamente un po' più particolare ma è chiaro il suo senso politico, cioè estendere la responsabilità del committente su qualsiasi danno alla salute subisca il lavoratore. Quella sugli appalti è una disciplina molto complessa, e il quesito mi sembra abbia un segno politico forte, suscitare un dibattito sul tema della sicurezza. E voglio ricordare che proprio nelle catene di subappalto si annidano le forme più insidiose e terribili di sfruttamento e di elusione delle norme in materia di sicurezza. La responsabilità in capo alla azienda committente finirebbe, inoltre, per incentivare una limitazione al ricorso delle catene di subappalti.
Professore, per concludere, secondo lei i quattro quesiti referendari, al di là del merito tecnico, possono rappresentare un primo passo per intervenire sul mercato del lavoro spostando il peso dall'impresa verso i lavoratori?
Mi sembra che i quesiti abbiano una portata tecnica specifica, però hanno anche un chiaro segno politico: quello di dare un segnale, un'indicazione di svolta. Dopo anni di deregolamentazione del mercato del lavoro, di riforme tutte centrate sul valore assoluto dell'impresa che non deve avere limiti e qualsiasi norma di tutela costituisce un vincolo alla competitività dell'impresa, ecco, mettere in discussione questo assunto credo sia la volontà politica che sta dietro i referendum.
Hanno, secondo me, anche un altro valore. Riportano al centro di un confronto pubblico e politico il tema della centralità del lavoro, della necessità di ripensare le norme riconoscendo maggiore dignità al lavoro rispetto a quanto non è avvenuto con la legislazione recente. Certo per fare questo si è colpita una riforma simbolo negli ultimi anni, il Jobs Act, ma non solo. Insomma il referendum sul contratto a termine incide e tende a derogare anche la recentissima riforma dell'anno scorso, il Decreto Calderone. La sostanza e la cosa importante è che i quattro quesiti riportano al centro del dibattito pubblico e politico il tema del lavoro su tre ambiti cardine delle riforme degli ultimi anni: la stabilità del lavoro e la non ricattabilità dei lavoratori sul posto di lavoro con il licenziamento, la precarizzazione attraverso contratti di carattere temporaneo e contratti a termine, e il problema della diffusione degli appalti come strumento appunto di compressione e di elusione dei diritti dei lavoratori. Io sono certamente favorevole a questi referendum per il merito, certamente, ma anche perché se avessero successo riportando al centro della discussione la questione del lavoro, potrebbero aprire le porte a un'evoluzione degli scenari politici.