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Ribolla è una frazione del comune italiano di Roccastrada, nella provincia di Grosseto, in Toscana. Qui, il 4 maggio 1954, un’esplosione di gas accumulatosi per la scarsa ventilazione in una galleria a 260 metri di profondità provocherà la morte di 43 persone nella sezione Camorra Sud della miniera di lignite. 43 persone morirono perché la sicurezza dei minatori era meno importante degli utili della gestione dell’impianto, perché gli strumenti di prevenzione e di sicurezza erano considerati un costo eccessivo per l’impresa.
“Si lavorava all’avanzamento nel pozzo Raffo - racconterà Armonide Pasquini, un sopravvissuto - D’un tratto sentii un sapore strano, acido, alle labbra. ‘Scoppia il gas’, dissi ai miei compagni di squadra, e subito sentimmo tremare forte la terra, e un polverone ci avvolse tutti, un polverone che non faceva vedere il compagno che era a un passo. (...) Si bussava nei tubi, ma i tubi erano scoppiati tutti e l’acqua aveva allagato la galleria. Fumo non c’era più, aspirato dalle ventole. Fatti una quarantina di metri, una pozza enorme, e nell’acqua galleggiavano sette cadaveri, pancia all’aria. Poi una frana chiudeva la galleria. Avevo la maschera e riuscimmo a far passare una corda al di là della frana, e aprimmo un piccolo varco e passai da quel varco. Una volta di là, sentii una malore alla testa, mi abbassai e svenni. Era l’ossido di carbonio. Poteva essere la morte per me, però i miei compagni capirono, mi raggiunsero, e fui portato subito verso il sole.Tanti vennero trovati sotto le frane, ma qualcuno fu trovato sdraiato come in attesa, e certi, si sentì dire allora, avevano le unghie consumate fino alla carne, quando li ritrovarono, per la furia di grattare disperati la terra della frane, per aprirsi un varco”.
“Sotto era una cosa terrificante - dirà Silvano Radi - una frana dopo l’altra. Furono di certo pochi attimi quelli dell’esplosione, ma dovevano essere stati lunghi, terrificanti: la deflagrazione, e subito dopo la fiammata. Li trovammo in posizioni diverse, qualcuno a terra, qualcun altro con le mani alzate come per pararsi da qualcosa di spaventoso. Nelle gallerie laterali, forse, fu il peggio. Perché la vampata percorse in un baleno la galleria principale, e causò i crolli; ma nelle galleria laterali, forse, l’onda d’urto non causò morti sul colpo. Era la mattina del 7 maggio quando ci furono i funerali. Le bare erano solo 37, perché gli altri corpi erano ancora in fondo alla miniera. Quando stavo per calarmi nel pozzo per l’ennesima volta, mi avvicinò uno dei miei minatori, un amico, Ubaldo Testini e mi disse: 'Deve esserci mio fratello Marcello là sotto. Ormai è morto, però mi faccia un favore, state attenti a non sciuparlo quando lo troverete'. Marcello era anche amico mio”.
La Segreteria della Cgil, riunitasi in seduta straordinaria alla presenza di Bitossi e Rossi di ritorno a Roma da Ribolla proclamerà lo sciopero generale emettendo il seguente comunicato: “La Segreteria confederale denuncia alla coscienza nazionale, commossa dalle tragiche conseguenze di questa catastrofe la grave responsabilità della Società Montecatini la quale, nonostante i ripetuti e documentati richiami della Commissione Interna e del Sindacato, si è rifiutata di prendere le misure di sicurezza indispensabili che erano state espressamente richieste. Al contrario, i dirigenti della Montecatini hanno accentuato le forme vessatorie di supersfruttamento e di minaccia, giungendo al licenziamento del Segretario della Commissione Interna che aveva denunciato i gravi pericoli a cui erano esposti i lavoratori”.
Tra le 50 mila persone presenti ai funerali c’è anche Giuseppe Di Vittorio. “Noi non permetteremo più - dirà - che la vita di tanti nostri fratelli sia sacrificata all’egoismo, che accumula la propria ricchezza sullo sfruttamento delle umane fatiche. Su queste bare noi vogliamo fare un giuramento: di essere sempre più uniti e più forti, affinché si imponga il rispetto di quelle misure sindacali, legali e umane che garantiscono la serena esistenza dei lavoratori. (…) Giuriamo che il vostro sacrificio non sarà dimenticato, che sarete elevati a simbolo di riscossa, di redenzione sociale e umana di tutti i lavoratori”. Purtroppo questa volta Di Vittorio sbagliava.
Poco più di due anni dopo, l’8 agosto 1956, il Belgio verrà scosso da una tragedia senza precedenti. Un incendio, scoppiato in uno dei pozzi della miniera di carbon fossile di Bois du Cazier, causerà la morte di 262 persone di dodici diverse nazionalità: 136 sono i minatori italiani.
"Una sola parola: inferno", scriverà Gianluigi Bragantin sulle pagine di Lavoro venti giorni dopo la strage: “Pittori di grande fama lo hanno dipinto. Ma bisogna andarci per capirlo fino in fondo, nel respirarne il clima, per sentirne l’oppressione. I villaggi, le strade, i baraccamenti si susseguono uno accanto all’altro e diventa impossibile distinguerli l’uno dall’altro. D’inverno le strade gelano, sono avvolte da impenetrabili brume, la neve si sporca di carbone: e minatori passano dai 45 gradi sottoterra ai 35 sotto zero alla superficie. La strada sulla quale cammini è della miniera, la casa che abiti della miniera, dei padroni della miniera è lo spaccio, il piccolo cinema, la ferrovia, il pullman, il terreno da costruzione, i mobili, i letti, il bar, la birra che bevi, il pane che mangi. Tutto è del patron. Se manchi un giorno dal lavoro l’affitto del mese ti viene conteggiato al 50% in più; se manchi due giorni ti viene raddoppiato. Se perdi una pala sotto una frana la devi pagare, se non capisci l’ordine di uno chef che parla in dialetto fiammingo prendi una multa che va a finire alla congregazione religiosa del luogo. Contro tutto questo lottavano i minatori morti a Marcinelle e contro tutto questo continueranno a lottare i loro compagni”.
Contro tutto questo continuiamo a lottare anche noi, “perché - diceva correttamente Giuseppe Di Vittorio - la fame, la fatica, il sudore, non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto”. Perché la strage continua. Perché ancora oggi il lavoratore, costretto dalla crisi ad accettare tutto, spesso resta solo. Perché è inaccettabile uscire una mattina per andare a lavorare e non tornare più, inghiottiti dalla brutalità di un sistema che sacrifica sull’altare del profitto gli esseri umani. Perché l’ipocrisia della tragica fatalità si ripete seguendo un copione non più accettabile. Perché il cimitero dei morti sul lavoro continua ad allargarsi come una ferita che nessuno riesce a sanare. Perché questi omicidi hanno un mandante: il silenzio. Perché anche se ci crediamo assolti, siamo tutti coinvolti.