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Un’analisi sull’andamento dell’economia e dell’occupazione in Italia non può prendere in considerazione soltanto aspetti favorevoli (per fortuna finalmente presenti) o di breve periodo. Invece, se il giudizio che si dà sui tanti dati che giornalmente vengono forniti non è totalmente positivo, si viene subito tacciati di pessimismo o disfattismo.
Partiamo dal Pil: +4,7 l’incremento finora acquisito per il 2021 e un probabile dato di crescita a fine anno attorno al 6%, se i numeri della pandemia resteranno contenuti alla situazione attuale. Bene ovviamente, un risultato concreto che non si vedeva da tanto tempo, ma è lesa maestà affermare anche che si recupera solo una parte del calo dello scorso anno? E soprattutto, che è necessario dare una prospettiva strutturale e pluriennale a questa crescita?
Invece, al massimo si arriva a prevedere per il 2022 il ritorno ai livelli del 2019 e poi, per ora, tutto è affidato al Recovery Plan che, però, avrà già esplicitato parte dei suoi effetti e che nel 2025 si esaurisce. È proprio nel momento in cui il Paese cresce più della media europea che dobbiamo – invece - porci il problema di non tornare ad una fase di sviluppo economico piatto. Perché questo non accada la fase attuale deve essere accompagnata da almeno quattro scelte, nazionali ed europee.
Le risorse del Recovery Plan devono servire, pur nel rispetto delle destinazioni previste dall’Europa, anche per la nascita di nuove attività stabili e di lungo periodo in Italia. Per intenderci, quello che attualmente non siamo in grado di produrre, non può semplicemente essere importato e gli accordi commerciali ed i bandi devono prevedere di strutturare quei segmenti produttivi nel nostro Paese. Se il welfare deve diventare oltre che diritto universale anche il motore di un nuovo sviluppo, l’assistenza alle persone, nel secondo Paese più longevo al mondo deve trasformarsi contemporaneamente in un settore di qualità delle prestazioni, accessibile a tutti e non solo per i più abbienti, sanando una delle maggiori piaghe di lavoro nero attualmente esistenti; e così via.
Gli investimenti, pubblici e privati nazionali, devono tornare a crescere con rapidità, aggiungendosi e non nascondendosi dietro al Recovery, in una quota che raggiunga la media europea. Chi investe può avere dei vantaggi, chi chiude e/o delocalizza no. Vanno cambiate le regole europee. Se nel 2023 si dovesse tornare ai parametri del Patto di stabilità e crescita la ripresa in Italia sarebbe strangolata sul nascere. Anche se il Pil nel prossimo anno dovesse aumentare oltre il 4%, entreremmo nel 2023 con un rapporto del 155% rispetto al debito e del 5,7% sul deficit (stime Ocse).
Non tranquillizza che otto Paesi abbiano già preso posizione per il ritorno alle regole precedenti. Per i meccanismi e i tempi europei la discussione, se vuole produrre risultati, sui diversi modi di affrontare questo problema (parametri, tempi, golden rule ecceter), va fatta adesso; sapendo però che le politiche monetarie da sole non bastano e che il tema di una progressiva armonizzazione fiscale deve iniziare (è inaccettabile la presenza ancora di paradisi fiscali).
Infine il lavoro. L’attuale crescita economica non si trasmette abbastanza sull’occupazione, sia in quantità che – soprattutto - in qualità. Mancano ancora centinaia di migliaia di occupati rispetto al periodo pre-covid. Anche se si afferma che entro il 2022 colmeremo questo gap, tornare ad un dato di occupazione inferiore di circa 10 punti alla media europea, può essere l’obiettivo?
È un elemento di scelta (quantità di lavoro) che deve guidare l’indirizzo dei finanziamenti europei e nazionali, le cifre che informalmente circolano sono troppo basse e deve interfacciarsi anche con il cambio tecnologico via via crescente. Ma non basta parlare di quantità. Nel 2021, il 75% del recupero di occupazione dipendente finora avvenuto è precario, tornato alla quantità di 3 milioni di lavoratori; per un'altra quota si tratta di un rientro di cassaintegrati, non di nuova occupazione.
Ci avviamo rapidamente a superare i record di precarietà degli anni precedenti, così come continua a crescere il lavoro con part-time involontario. La precarietà non può essere semplicemente derubricata come meccanismo routinario delle fasi di ripresa, perché per milioni di persone, in particolare donne e giovani, era già ampiamente presente nel 2019, poi è divenuta disoccupazione nel 2020 e adesso di nuovo lavoro precario?
Da sempre la destra politica (purtroppo a volte, non solo) sostiene che è meglio un lavoro qualsiasi che non lavorare, ma quel “lavoro qualsiasi” riguarda ormai oltre 5 milioni di persone, con salari a cavallo o troppo poco sopra la soglia di povertà. È inaccettabile, non serve abbassare l’entità del reddito di cittadinanza, ma dare una remunerazione equa ad un lavoro dignitoso. La disoccupazione effettiva poi, come ormai più studi indicano, è più ampia del dato formale che, in ogni caso, l’Ocse prevede sopra il 10% anche per tutto il 2022.
Il lavoro è un parametro sensibile, una cartina di tornasole della qualità dello sviluppo. Infatti, a lavoro povero e/o dequalificato corrisponde uno sviluppo basso, incentrato prevalentemente sulla competizione di costo e il fatto che tra i nuovi occupati crescano le basse qualifiche è una preoccupazione ulteriore. In ogni caso, se a qualcuno non piacesse parlare di diritti e di condizione inaccettabile per molti lavoratori, almeno spieghi come intende sostenere i ragionamenti, che pure vengono evidenziati, sul ruolo essenziale della domanda interna e dei consumi per il futuro dello sviluppo?
Puntare semplicemente al fatto che tutto il risparmio accumulato dalle famiglie durante il lockdown torni in circolo, non è realistico, la propensione al risparmio (per chi può) da sempre alta non calerà rapidamente, anche perché le preoccupazioni sul futuro restano consistenti. I consumi finali nazionali sono gran parte del Pil e, per la definizione di questo dato, è fondamentale la spesa delle famiglie. Ecco perché tornare al 2019 non può essere l’obiettivo, e per non tornarci, creare più lavoro e lavoro di qualità è più importante di molti altri parametri; deve indicare la direzione di indirizzo degli investimenti.
Questo è un punto fondamentale che le organizzazioni sindacali chiedono di discutere relativamente a: attuazione del Recovery e alle sue ricadute su quantità e qualità di lavoro; riforme relative a fisco e pensioni; ammortizzatori, politiche attive del lavoro e formazione permanente; politiche industriali ed ambientali; concorrenza e codice degli appalti; contro le delocalizzazioni, per politiche di sicurezza che fermino le stragi nei posti di lavoro.
Niente a che vedere, come qualcuno le dipinge, con astratte rivendicazioni di tavoli di confronto. Poiché le scelte dei prossimi mesi segneranno il futuro dell’Italia, il sindacato vuole avere voce in capitolo. Per lo “sforzo corale” che costantemente viene richiamato, qualcuno pensa che si possa prescindere da questo? Sarebbe una scelta sbagliata e quindi comporterebbe una necessità di mobilitazione, in modo innovativo e tradizionale. Il lavoro farà comunque sentire la sua voce, anche le lavoratrici ed i lavoratori vogliono e devono cantare nel coro.
Fulvio Fammoni, presidente Fondazione Di Vittorio