I precari sono molto più numerosi dei dipendenti, hanno paghe da fame e sono ricattabili. Quelli assunti regolarmente, sempre meno, hanno perso reddito: meno 4 per cento dal 2016 al 2023, oltre all’inflazione cumulata dell’ultimo quadriennio che ha colpito tutti, pari al 19 per cento, e con un contratto fermo da dieci anni. I giornalisti italiani nel quadro che emerge dal primo report realizzato da Inps, Fondazione Murialdi e università Sapienza di Roma, con il contributo di Inpgi, ordine professionale e Casagit, sono una categoria di lavoratori in difficoltà, esattamente come tante altre.

La resistenza dell’informazione

A dispetto della cattiva fama che li perseguita da anni, secondo la quale sono una casta privilegiata e fanno un mestiere che è “sempre meglio che lavorare”, stanno vivendo un momento di grave crisi della professione e del comparto. Con redazioni che si vuotano, dove il turn over non esiste se non per mandare a casa tre professionisti e prendere un giovane precario, testate che resistono grazie a casse integrazioni durissime, giornali che chiudono impoverendo il panorama dell’informazione.

Precari, espulsi dalle redazioni

“Da un lato c’è la diminuzione degli stipendi dei giornalisti dipendenti che è gravissima, dall’altro il mondo dei precari che è sempre più vasto, più povero e più anziano – afferma Alessandra Costante, segretaria generale della Federazione stampa italiana -. Dai dati del report si evince che una grande fetta di precari ha superato i 50 anni e questo preoccupa: si tratta di giornalisti che sono stati espulsi dalle redazioni e che hanno cercato di riciclarsi con il lavoro autonomo. Le collaborazioni coordinate e continuative, una follia che abbiamo solamente in Italia, hanno condannato alla povertà e a un pensionamento da disperati una grandissima fetta di lavoratori. Dagli anni Novanta in poi abbiamo avuto l’ubriacatura della flessibilità, che nel mondo dell’informazione ha provocato compensi infimi”.

Paghe da fame

I numeri sono esplicativi. Nel 2023 i dipendenti con una posizione Inps sono 17.189, gli autonomi iscritti all’Inpgi 25.791: di questi il 26 per cento sono cococo, il 74 per cento freelance. Quanto guadagnano in media gli autonomi? 14.314 euro lordi, con differenze sostanziali: la maggior parte, ovvero 11.421, ha redditi fino a 10 mila euro l’anno, il gruppo dei collaboratori non arriva a 12 mila euro, i freelance superano di poco i 16 mila, con una differenza retributiva di almeno 1.500 euro all’anno tra uomini e donne.

Un gender gap che si ritrova in tutte le classi di età e a tutte le latitudini. Le pensioni sono naturalmente proporzionate: 3.120 euro l’anno nel 2023, anche qui con uno scarto tra maschi e femmine di 500 euro. C’è da chiedersi come possa vivere un giornalista pensionato.

Gender gap

“Le donne guadagnano meno, non fanno carriera, non hanno ancora sfondato il soffitto di cristallo perché non basta una direttrice ogni tanto, le altre danno tutte zuccate contro questo soffitto – riprende la segretaria Fnsi -. Sulle donne pesa tuttora il lavoro di cura e della famiglia, e nei giornali che hanno necessariamente orari incompatibili con quelli di una famiglia, la donna fa la scelta del part time. Non è un caso che dei part time presenti nei giornali, l’89 per cento sia di donne”.

Bene pubblico

Non è un segreto che i giornali ormai siano fatti da una parte sempre più esigua di lavoratori dipendenti e una fetta sempre più ampia di cococo, che costano un decimo in meno, veri e propri schiavi senza futuro.

“Sono professionisti ricattabili perché la libertà dell’informazione passa attraverso l’articolo 21 della Costituzione, ma anche attraverso dell’articolo 36 – dice Costante della Fnsi -: il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”.

"Se non può sostenersi con il suo lavoro, non c’è libertà dell’informazione – conclude Costante -. Come possiamo condannare i colleghi che fanno copia incolla dei comunicati, senza spirito critico, perché devono arrivare a pubblicare dieci pezzi in un giorno, 5 euro a pezzo, per racimolare 50 euro al giorno? Gli editori non vogliono rinnovare il contratto e fuggono dalle loro responsabilità, mentre il sistema ha bisogno di linfa e di investimenti pubblici, perché l’informazione è un bene pubblico e deperibile”.