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Si moltiplicano i casi di aziende che non vogliono più completare il percorso di confronto sindacale per la messa in cassa integrazione delle proprie maestranze, dopo l’ultima circolare Inps sulle richieste di accesso alla Cig. L’allarme lanciato dal segretario generale della Fillea Cgil, Alessandro Genovesi, è mosso soprattutto dal timore che questo “potrebbe essere solo l’inizio di una pratica furbesca che vedrà centinaia di aziende di fatto scavalcare gliobblighi di legge”.
Il sindacato, a livello territoriale, attiva tutte le proprie energie anche su questo fronte. È il caso della Fillea Cgil di Torino che è subissata da una enorme quantità di richieste di cassa integrazione: a venerdì le richieste ammontavano a 478, per un totale di 430 mila ore e con il coinvolgimento di 4.490 dipendenti, quasi il 50% registrati dalle cassa edili. “Siamo solamente all’inizio - spiega il segretario generale della Fillea Cgil torinese, Marco Bosio -. Sulle prime le preoccupazioni erano dovute ai tempi lunghissimi per il pagamento di queste enormi quantità di cig, perché tutte le aziende stanno sospendendo le lavorazioni, anche a causa del numero inadeguato di mascherine e igienizzanti che non sono reperibili. Poi, con l’ultima circolare Inps, è subentrato un altro ordine di problemi che riguarda la stortura del sistema. Con i nostri monitoraggi e contattando le aziende si potevano filtrare le aziende furbette, quelle che chiedono la cassa integrazione anche se possono tenere aperta l’attività, scaricando sul solito Pantalone (i lavoratori) un costo che altrimenti sarebbe loro. Con le direttive dell’Istituto previdenziale e le strane interpretazioni del decreto ministeriale sono cominciate ad arrivare le telefonate per dirci che non c’è più bisogno del sindacato, perché ora è sufficiente inoltrare solamente la domanda all’Inps”.
Per il sindacato, se ci sono realtà dove si può lavorare, è indispensabile provare a farlo, per garantire il reddito e dare dignità ai lavoratori che “devono portare la casa pagnotta”. Bosio fa un esempio concreto: “Se un’azienda ha 5 dipendenti, può farne lavorare due o tre garantendo piena sicurezza. Se invece lascia tutti a casa ad aspettare la cassa integrazione, cosa possono fare i lavoratori con 700 al mese? E poi ci sono coloro ai quali tra un paio di mesi scadrà la NaASpI, l’indennità mensile di disoccupazione, e a loro dobbiamo dare risposte, perché non trovino il vuoto assoluto e la totale impossibilità di trovare lavoro”.
La situazione sembra essere piuttosto omogenea su tutto il territorio e infatti, se andiamo in una zona come la Sardegna, molto differente da quella di Torino e Piemonte, anche la segretaria generale della Fillea Cgil regionale, Erika Collu, ci spiega che in una prima fase il sindacato è stato sommerso da richieste di attivazione di cassa integrazione anche dove non c’è la necessità, anche perché l’applicazione delle misure contro il contagio è abbastanza problematica, poi, con la direttiva dell’Inps, le cose sono cambiate. Si sono moltiplicati i “comportamenti improbabili” di consulenti del lavoro che hanno cercato di bypassare l’accordo sindacale in quanto non necessario ai fini dell’iter per ottenere la concessione della cig.
“La nostra preoccupazione e il nostro interesse - dice Collu - è dare il più possibile copertura ai lavoratori che sono in una condizione di assoluta incertezza, perché ora si parla di 9 settimane di cassa integrazione, ma non vi è nulla di certo. C’è invece bisogno di ripartire, anche perché gli ultimi dati delle casse edili stavano facendo vedere una luce in fondo al tunnel che ora invece si è spenta”. I sardi hanno inoltre l’impressione di essere tagliati fuori da tutto, di essere ulteriormente isolati, per il difficile approvvigionamento di merci e di dispositivi di protezione individuali, questi ultimi già requisiti dalla Protezione civile per gli ospedali, “dove gli operatori, ai quali va la solidarietà del sindacato, stanno mettendo a rischio la loro vita”.