“Gli operai non contano più niente, il lavoro sta finendo”. C’è tutta l’amarezza e lo sconcerto di questi tempi bui nello sfogo di Filiberto Graziani, un delegato Flai Cgil dello stabilimento Fiorucci di Pomezia, alle porte di Roma. 64 anni, 37 di contributi, una vita a fare dentro fuori dai frigoriferi, a lavorare la carne di maiale che poi diventava prosciutto e salame nei nostri panini. Due malattie professionali. A tanto così dalla pensione, ancora lontana se non vuole accontentarsi di una miseria, deve andare avanti per altri tre anni. Dal presidio presso il palazzo della Regione Lazio, l’ennesima tappa di una mobilitazione che va avanti da novembre scorso e che è l’ultima di una lunga parabola discendente che ha portato questo marchio a ridurre la forza lavoro dai 1400 del 1995 ai 400 di oggi, parla con tristezza di quello che è diventato il mondo del lavoro. “Perché oggi chi comanda sa che con lo stipendio di un operaio anziano può pagare tre giovani o esternalizzare a una cooperativa. Per questo il lavoro sta finendo. Per questo la nostra lotta in questa vertenza diventa importante per tutti. Non dobbiamo permetterlo”.
La vertenza, già. Questa infinita discesa di Fiorucci, un marchio che conserva agli occhi di molti prestigio e fama, ma che, crisi dopo crisi, fin dal lontano 1996, ha imboccato la strada del passaggio di mano. Ognuno di quelli che lo prendeva – multinazionali, fondi di investimento – rubava un pezzetto e lo lasciava più povero. “L’amministratore delegato ci ha detto che questa azienda l’ha pagata un euro. Questa è un’azienda fallita – ci ha detto – che vale un euro. Ma se è fallita, che te la sei comprata a fare? Allora vuoi grattare il fondo anche tu”. Esce fuori la rabbia e lo sconcerto di chi l’ha fatta veramente la fortuna di questo marchio, un giorno dopo l’altro, a confezionare affettati, mentre ai piani alti si ragionava solo di quanto e come spremerlo.
"Gli ultimi e attuali proprietari si sono insediati ad agosto. E a novembre ci hanno dato il buongiorno, aprendo questa procedura di licenziamento per il 55% della forza lavoro. Se calcolate che fino al giorno prima noi quotidianamente avevamo dentro allo stabilimento 30 o anche 40 interinali che facevano una parte importante e faticosa del lavoro, perché qui siamo tutti in età avanzata e pieni di acciacchi, pensate a quante braccia servono per mandarla avanti. Anche perché qui per fatturare, non avendo mai puntato sull’innovazione di prodotto, servono grandi quantità, tonnellate, non quintali. Se adesso tu smonti l’azienda, da 400 ci porti a meno di 200, me lo dici come speri di farlo davvero il lavoro?”.
Lunedì scorso si sono chiusi i 45 giorni della procedura. Dopo lo sciopero e il presidio di oggi, 18 gennaio, si attende domani il primo incontro dei 30 giorni della fase istituzionale. “Presumibilmente ci sposteremo al ministero – ci spiega Antonio Del Brocco, segretario Flai Cgil Roma Lazio –. L'azienda non vuole attivare gli ammortizzatori sociali ma soltanto gli incentivi all'esodo. È l’ennesima deindustrializzazione: oggi fanno i licenziamenti e spostano – dicono – gli investimenti al biennio 2025/2026. La protesta ha lo scopo di sollecitare la Regione affinché convinca l’azienda a utilizzare gli ammortizzatori sociali. Di 170 esuberi solo una settantina sono pensionabili sfruttando i due anni di Naspi. Ne resterebbero fuori circa in 100. E intanto l’azienda che per funzionare, produrre e restare sul mercato ha bisogno di braccia finirà per esternalizzare”.