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Quando il bracciante Giuseppe Di Vittorio varcò per la prima volta la soglia della Camera, qualcuno lo definì "un cafone in Parlamento" La risposta dell’ex segretario della Cgil e padre costituente, rimane nella storia: “Onorevoli colleghi - dirà - questa mattina qualcuno seduto in quest’aula, per dimostrare il suo disprezzo per la mia presenza qui, ha mormorato: “Un cafone in Parlamento…”. Ebbene sappiate che questo titolo non mi offende, anzi, mi onora, infatti se io valgo qualcosa, se io sono qua, lo devo ad Ambrogio, a Nicola, a Tonino, a tutti quei braccianti analfabeti che hanno dormito insieme a me nelle cafonerie e con me hanno mangiato pane e olio, che hanno lottato duramente per i diritti dei lavoratori, di tutti i lavoratori, perché la fame, la fatica, il sudore non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto”.
“Dopo che gli era morto il padre - raccontava Gianni Rodari nel 1954 - Peppino Di Vittorio, che faceva la seconda elementare, aveva dovuto lasciare la scuola e andare a giornata, a zappare, a grattare la terra, a dormire tutte le notti in quello stanzone, perché la masseria era troppo lontana, e tornare a casa la sera non si poteva. Era stato un brutto giorno, per il ragazzo, l’ultimo giorno di scuola. Aveva avuto ancora una coccarda: la coccarda tricolore del più bravo della classe, che toccava a lui quasi tutti i giorni. E i figli dei ricchi l’avevano scherzato ancora una volta: - Guardate che bella coccarda! - ridevano, e accennavano a una grossa toppa cucita nei pantaloni. Ancora una volta Peppino era arrossito per lo scherzo crudele: la povertà non è vergogna, ma a nessuno piace essere schernito per la sua povertà. - Io non ho colpa, se sono povero - pensava il ragazzo, contemplandosi gli abiti meschini, tenuti insieme a toppe e rammendi. Aveva lasciato la scuola, ma i libri non li aveva lasciati. Qualche soldo per sé riusciva ad averlo, adesso che lavorava: e si faceva assegnare anche del lavoro straordinario, per avere qualche soldo in più. E ogni volta che la somma bastava, si comperava un libro. Di notte, mentre i suoi compagni dormivano, si ficcava i pugni alle tempie, dandosi dei colpi per tenersi sveglio, e leggeva. Leggeva ogni sorta di libri, tutto quello che gli capitava. A poco a poco i suoi compagni - ragazzi come lui, e uomini fatti, ed anche vecchi braccianti, rugosi come la terra - cessarono di scherzare su quella passione per i libri. Gli si facevano attorno, gli chiedevano: - Che cosa dice il tuo libro? Che cosa c’è scritto? - Allora Peppino era felice: si sentiva ricco, perché gli altri avevano bisogno di lui, perché aveva già qualche cosa da dare agli altri. Per un’ora, per due, prima di dormire, i braccianti ascoltavano le storie che Peppino narrava. Questo però gli rubava tempo per la lettura: allora inventava un finale per la storia. 'È finita', diceva, e si gettava sul pagliericcio a leggere.
"Di giorno, sui campi, - proseguiva Rodari - era un ragazzo come tutti gli altri: passavano i guardiani a cavallo, passava il padrone, e nessuno avrebbe potuto distinguere dai suoi compagni quel ragazzetto dal viso scuro, quasi schiacciato dalla folta capigliatura nera. Di sera, nel silenzio dello stanzone, rotto dal respiro pesante dei lavoratori addormentati, Peppino era un altro: era solo, in mezzo a tutti e faceva la sua strada. Ogni riga della pagina era un passo in avanti. Ogni pagina, un ostacolo scavalcato. Ogni libro letto, una conquista”.
Esatto Peppino era altro, e ridurlo al classico cliché dell’analfabeta divenuto famoso e potente è davvero troppo poco per una persona ed una personalità come la sua. Giuseppe Di Vittorio era uno studioso appassionato e dalla forte personalità, un uomo autonomo nel pensiero e non condizionato da vincoli di appartenenza politica, mai disposto ad accettare ordini, neppure se arrivano dalle Botteghe Oscure o da Togliatti in persona. È il promotore - nel 1952 - della prima idea di uno Statuto dei diritti dei lavoratori, l’ideatore del Piano del lavoro, del concetto stesso di sindacato come soggetto politico. Un uomo che, con coraggio e spirito unitario, affronta le scissioni seguite all’attentato a Togliatti, le crisi della sconfitta alla Fiat nel 1955, del XX Congresso del Pcus, degli eventi drammatici di Polonia e d’Ungheria. A Mosca partecipa alla direzione della Internazionale contadina, in Francia - dove dirige il quotidiano La voce degli Italiani - riorganizza a Parigi la Confederazione generale del lavoro e si dedica al rafforzamento del movimento antifascista tra gli emigrati italiani.
“Cosa devo a Di Vittorio? - dirà Luciano Lama nel novembre 1981 in una intervista a l’Espresso - Prima di tutto i ferri di un mestiere non facile. Il coraggio di affrontare la realtà, anche quella che non ti piace. Lo sforzo costante di non appagarsi della superficie, ma di vedere quello che c’è sotto le cose. Infine, l’abitudine a pensarci su, a non essere frettoloso nei giudizi, ma poi ad avere il coraggio di esprimerli anche controcorrente”. Non era un bracciante analfabeta, era un uomo “rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere del nostro paese… quelle masse cioè alle quali le strutture sociali ingiuste ed inumane della nostra società negano la possibilità non solo della cultura, ma anche dell’istruzione elementare, e che ciò malgrado, però, vogliono, si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado che le loro capacità, le loro possibilità permettono di raggiungere”.
E Giuseppe Di Vittorio raggiunge vette altissime, tanto che Bruno Trentin, un uomo ed un grane intellettuale non certo facile a complimenti gratuiti, dirà di lui: “La morte di Di Vittorio ha rappresentato naturalmente il maggiore elemento di sconvolgimento. Ero a Napoli, di ritorno da Palermo, quando si è diffusa la notizia. E puoi immaginare quanto mi abbia colpito. Tuttora non ho ancora completamente eliminato la sensazione d’angoscia e di dolore che mi ha provocato. Dio sa quanto conoscessi i suoi limiti e le sue debolezze e quante volte mi sia ribellato a certe ristrette manifestazioni della sua mentalità di contadino meridionale. Ma sento sempre di più quello che quest’uomo ha rappresentato per me, nella mia formazione di uomo politico e - retorica a parte - semplicemente di uomo. Sento la sua forza e la sua giovinezza, il suo ottimismo intellettuale, sempre “provocatorio”, come una delle cose più ricche che mi abbiano trasformato in questi ultimi anni. Qualche volta - e in questi ultimi tempi, spesso - questa forza diventava meno razionale, ingenua e puramente polemica. Ma anche in questi casi restava come un’esigenza, come un richiamo a un certo linguaggio, fresco e stimolante, come l’affermazione polemica di un metodo che io sento sempre più vivo e valido: non si può mettere in crisi nessun 'sistema', in una società o in un uomo, se non avendo fiducia nell’elemento positivo, progressivo, illuminato, che ne ha giustificato l’esistenza, se non sottolineando l’incapacità di una società o di un uomo a realizzare vittoriosamente “la sua ragione d’essere”.
Anche in modo ingenuo, Di Vittorio vedeva nella società capitalistica italiana “la ricchezza che poteva essere prodotta” - e che non lo era - piuttosto che la “povertà” esistente. Ed era l’idea della “ricchezza” ad entusiasmarlo. Per questo non poteva essere un fatalista o un positivista da quattro soldi. Per questo voleva, con accanimento, da autodidatta, essere un uomo del proprio tempo: era stupito dalle macchine, dalla televisione e dai nuovi modelli di automobili. Rispettava come profeti gli scienziati e i medici. Voleva essere sempre “al corrente” delle cose. Temeva con angoscia, come uomo e come Cgil, di venir “escluso”, di non svolgere un ruolo riconosciuto nello sviluppo della società contemporanea.
Era d’altro canto uomo di un’altra epoca e aveva il fiatone negli ultimi tempi. Il suo sforzo diventava straziante ma era sempre magnifico e grandioso. La sua morte rappresenta davvero, in Italia, la fine di un’epoca, quella un po’ “populistica” e romantica del dopoguerra, e gli inizi di un’altra. E ha saputo essere l’uomo del passato e insieme l’uomo della transizione. Ha capito quello che c’era di nuovo nella storia e, con tutte le sue forze, da toro qual era, ha fatto di tutto per capire, e per esistere, da uomo moderno. Insomma, che dire, togliamoci il cappello di fronte ad una della figure più grandi del XX secolo: un uomo, un politico, un sindacalista a cui il mondo del lavoro e l’Italia devono tanto.