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Ma quali lavoretti? Per chi è impiegato nella gig economy, cioè per una piattaforma digitale, consegnare pasti a domicilio o fare traduzioni on-line è l’attività principale: nell’80,3 per cento dei casi è una fonte di sostegno importante o addirittura essenziale, mentre per circa la metà (48,1 per cento, pari a 274mila persone) rappresenta l’unico lavoro. Uno su due sceglie le piattaforme in mancanza di alternative occupazionali (50,7 per cento), ma solo l’11 per cento ha un contratto da dipendente, anche se nella stragrande maggioranza si tratta di “lavoro subordinato mascherato”.
I dati emergono dall’indagine “Lavoro virtuale nel mondo reale” dell’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, che coinvolgendo oltre 45mila intervistati tra marzo e luglio 2021, ha realizzato per la prima volta un censimento dei platform worker in Italia. E ha sfatato i miti della sharing economy: “Le piattaforme digitali richiamano sempre di più forme di lavoro rigidamente controllate (nei tempi e nei modi) – conclude il rapporto -, pagate spesso a cottimo (50,4 per cento dei casi) e il cui guadagno risulta fondamentale per chi lo esercita”. Insomma, un quadro lontano dagli stereotipi e dalle facili narrazioni che delineano un lavoro libero, indipendente e creativo.
“Le vere caratteristiche di questi impieghi noi le abbiamo riscontrate da tempo, anche se esclusivamente nel settore dei rider – spiega Silvia Simoncini, segretaria nazionale Nidil Cgil, la categoria della confederazione che si occupa degli atipici -. Abbiamo la consapevolezza che quello che viene considerato e definito un lavoretto, e di conseguenza valutato come non interessante e strutturale ai fini dei diritti e delle tutele, per molti rappresenta invece il lavoro prevalente, attraverso il quale si mantengono vite personali, figli, intere famiglie. È sbagliato dipingere il rider come il giovane studente che consegna cibo per avere in tasca qualche soldo per divertirsi. Basta girare tra i ciclofattorini per scoprire che la platea è composta da uomini e donne che sono stati espulsi dal mondo del lavoro o che non hanno trovato una prima occupazione stabile, e si sono reinventati. Quindi non studenti che vogliono arrotondare. Ci battiamo da sempre perché a questi lavoratori vengano riconosciute garanzie non solo economiche ma anche tutele sociali”.
L’universo dei platform worker
Nel periodo 2020-21 i lavoratori delle piattaforme digitali sono stati 570.521. Si tratta di un esercito di persone che svolge un insieme eterogeneo di attività, dalla consegna a domicilio allo svolgimento di compiti on-line: traduzioni, stesura di testi, programmazione di software, riconoscimento immagini, realizzazione di siti web. Rappresentano l’1,3 per cento della popolazione tra i 18 e i 74 anni, il 25,6 per cento del totale di chi guadagna tramite Internet. Una piccola fetta, che è in crescita ed è destinata ad aumentare.
“Ai platform worker – si legge nel rapporto Inapp -, vanno aggiunti coloro che vendono prodotti (piattaforme pubblicitarie) o affittano beni di proprietà (piattaforme di prodotto) per un totale di 2.228.427 individui (il 5,2 per cento della popolazione 18-74 anni) che dichiarano di aver ricavato un reddito attraverso le piattaforme digitali”. I gig worker sono per tre quarti uomini, sette su dieci hanno un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, con i giovani tra i 18 e i 29 anni concentrati soprattutto nella categoria degli occasionali. Il titolo di studio è in genere il diploma. Il 45,1 per cento appartiene alla tipologia “coppia con figli”, ma la quota sale al 59,1 per cento nel caso di occupati che considerano quella delle piattaforme un’attività secondaria.
Non solo rider
Fra le diverse classificazioni di piattaforme digitali, il rapporto Inapp adotta quella indicata dall’Ilo, International Labour Organization, che distingue tra web-based platform, cioè quelle che prevedono micro-compiti svolti sul web senza vincoli di localizzazione, e le location-based platform, in cui i compiti assegnati sono svolti in una località specifica, dalla consegna di cibo e prodotti alla guida di autovetture. Se si segue questa classificazione, emerge che poco meno di due terzi delle attività riferite dagli intervistati può essere ricondotta a quest’ultima tipologia, mentre il restante 35 per cento riguarda attività svolte on-line per le piattaforme web-based. Anche in Italia quindi si sta diffondendo il lavoro completamente sul web, pressoché impossibile da vedere e tracciare, ma che ha raggiunto una quota di lavoratori pari a quella dei ciclofattorini.
Caporalato digitale
“Come molte attività ‘sommerse’ anche il lavoro tramite piattaforma si presta a condizioni di ridotta autonomia – si legge nel rapporto - e a sospetti di rapporti irregolari, se non addirittura fenomeni di caporalato”. Come dimostra la maxi inchiesta di Milano che ha portato il procuratore capo ad affermare che i ciclofattorini sono sfruttati come schiavi. Se poi si pensa che circa tre lavoratori su dieci non hanno un contratto scritto, che il 26 per cento non gestisce direttamente l’account per accedere alla piattaforma e che nel 13 per cento dei casi il pagamento viene gestito da un ulteriore soggetto esterno, risulta evidente come in questo settore il rischio di sfruttamento del lavoro sia molto elevato. E se sette addetti su dieci prima di iniziare hanno dovuto sostenere un test o una prova valutativa, soprattutto quando sono in relazione con una piattaforma location-based, la stragrande maggioranza, ovvero l’89 per cento, non ha un contratto da dipendente: è a collaborazione, con l’autonomo occasionale, a partita Iva o con altre forme. Si tratta quindi di un lavoro povero, fragile, di una nuova precarietà digitale.
“Abbiamo registrato un boom delle collaborazioni autonome occasionali - riprende Simoncini -, oltre che delle partite Iva che lasciano molti dubbi circa la loro genuinità. L’economia digitale si è sviluppata senza però creare lavoro di qualità, un aumento dell’occupazione precaria che non produce né ricchezza né stabilità. Per contrastare il fenomeno, stiamo battendo tre strade: i contenziosi in tribunale, per la difesa dei diritti individuali, l’approvazione di leggi ed emendamenti, come quello appena inserito in legge di Bilancio che dovrebbe consentire di censire le collaborazioni autonome occasionali, la contrattazione collettiva tipica dell’attività del sindacato”.
La proposta Ue
Questa situazione dovrebbe cambiare se verrà approvata anche dal Parlamento e dal Consiglio europeo la proposta di direttiva presentata il 9 dicembre scorso dalla Commissione Ue, che stabilisce che i rider sono lavoratori dipendenti e assegna all’azienda l’onere di provare il contrario. “L'adozione della direttiva può rappresentare un importante punto di riferimento sovranazionale per regolamentare e tutelare il lavoro delle piattaforme – afferma Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp -. In questo contesto fino a cinque milioni e mezzo di lavoratori digitali in Europa potrebbero essere riclassificati come subordinati, usufruendo così di alcuni diritti fondamentali, tra cui salario minimo, orario, sicurezza e salute, forme di assicurazione e protezione sociale, finora negati”.
In particolare, sono stati individuati cinque criteri che servono a determinare il grado di controllo che ha la piattaforma: la determinazione del livello di remunerazione, il controllo con mezzi elettronici, la limitazione della libertà di scelta dell’orario o dei periodi di assenza, specifiche regole su abbigliamento e condotta, limitazione della possibilità di lavorare in proprio o per terzi. Sarà necessario che ne siano soddisfatti due perché scatti la presunzione di dipendenza.
Schiavi dell’algoritmo
Autonomi lo sono solo a parole i lavoratori italiani dell’on-line, perché nei fatti sono soggetti alla valutazione del lavoro svolto. Il sistema più diffuso è quello legato al numero di impegni o incarichi portati a termine (59,2 per cento dei casi), seguito dal giudizio dei clienti (42,1 per cento). Questo conferma la centralità del sistema del cottimo orario nella valutazione effettuata dagli algoritmi sui lavoratori e nell'organizzazione produttiva della piattaforma, e suggerisce come per molti lavoratori delle piattaforme non si tratti di lavoro autonomo ma di lavoro dipendente a tutti gli effetti.
A una valutazione negativa o a una mancata disponibilità nello svolgimento degli incarichi corrisponde in quattro casi su dieci un peggioramento del tipo di incarichi assegnati, con la riduzione delle occasioni di lavoro più redditizie rispetto al complesso degli incarichi (40,7 per cento). Inoltre, la valutazione negativa determina per il 4,3 per cento dei lavoratori il mancato pagamento della prestazione svolta, fino ad arrivare nel 2,8 per cento dei casi alla disconnessione forzata dalla piattaforma, una sorta di licenziamento occulto.