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Il vero “sblocca cantieri” non è quello targato giallo-verde, che allenta i controlli e allenta le briglie in una vecchia ottica derogatoria di stampo neo-liberista (e poco importa se poi arriva un po’ di malaffare). Il vero sblocca-cantieri è quello che si propone come obiettivo il rilancio di una vera politica industriale di sistema in cui l’intervento pubblico e il capitale privato giocano un ruolo essenziale non solo, appunto, nello sbloccare le opere, ma anche nel puntare a un’industria moderna che compete sulla qualità dei materiali, dei processi e, naturalmente, del lavoro. Unico modo, questo, per il rilanciare l’economia italiana.
Questo il nocciolo della relazione introduttiva di Alessandro Genovesi, segretario generale della Fillea Cgil, al convegno organizzato a Roma e a cui è stato dato un titolo emblematico: “Per un vero sblocca cantieri. Una proposta di politica industriale di sistema” che vede la partecipazione di economisti, esponenti del mondo delle imprese e del sistema bancario. Una proposta forte che, come spiegherà Genovesi, ha il suo nocciolo in uno “sblocca cantieri finanziario, nella possibile doppia veste di un Fondo nazionale Banche-Cassa depositi e prestiti che agisca anche tramite una specifica ‘società veicolo’”. Un’operazione finanziaria, certamente, ma a patto che al termine “finanziario” si tolga quell’accezione negativa a cui gli sviluppi degli ultimi anni ci hanno abituato: una finanza, cioè, che serva a fare industria, a rafforzare le imprese e la qualità del lavoro.
Nel suo intervento, prima di arrivare al cuore della proposta, Genovesi ha ripercorso quello che è accaduto nel settore delle costruzioni negli ultimi anni. A partire dall’interlocuzione col precedente governo sul superamento delle Leggi Obiettivo che sarebbe poi diventato il programma da 150 miliardi denominato “Connettere l’Italia”, evidenziandone “i punti di forza e le debolezze”. Tra i punti di forza, ha ricordato il sindacalista, “un’idea di programmazione di medio periodo con la selezione delle priorità”, la centralità dell’intermodalità, la strategicità dei porti e della cura del ferro, la necessità di dare “una funzione industriale nuova alle grandi stazioni appaltanti, a partire da Anas e Rfi”.
Accanto a questo, però, vi erano anche alcune criticità, importanti da rilevare perché spesso rappresentano una zavorra che ancora pesa sull’intero sistema: “La prima – ha scandito il sindacalista – era l’assenza di una stringente e corretta interpretazione dell’art. 30 c.4 del Codice, relativamente al fatto che se vuoi un lavoro di qualità, devi investire sulla corretta applicazione dei Ccnl, sulla lotta al dumping come lotta al meccanismo del massimo ribasso”. La seconda criticità stava nel fatto che, per quanto importanti siano il ruolo di Anas e Rfi, mancava e manca una strategia per ridurre le stazioni appaltanti (ben 30.000, ndr), qualificandone però l’azione”. Infine, ma non per importanza, “l’assenza di interventi mirati per affrontare una fragilità finanziaria (e quindi una sovraesposizione debitoria) che avrebbe potuto colpire diversi grandi player del settore – vittime del circuito vizioso tra crescente incidenza dei crediti deteriorati nei bilanci bancari, irrigidimento dei requisiti patrimoniali, congiuntura sfavorevole, ritardi nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni”. Insomma, “vedemmo prima di altri che, in assenza di un intervento politico deciso delle banche e dello Stato, avremmo anche potuto aggiudicare le opere, ma poi avremmo fatto fatica ad avviare o completare i cantieri”.
Come si vede, sono questioni irrisolte e sul quale i sindacati hanno chiesto un’interlocuzione al nuovo governo. Come è andata lo sappiamo: non c’è stato alcun ascolto – nonostante l’Avviso Comune siglato con l’Ance nel luglio del 2018 – e “mentre si disquisiva di fantomatiche ‘analisi costi benefici’ o si trasformavano le grandi opere in oggetto di scontro elettorale, siamo giunti allo sciopero generale, unitario e dell’intera filiera, del 15 marzo scorso”.
Nel frattempo, ha ricordato il leader della Fillea, di tempo se ne è perso tanto. I grandi player del settore versano in grandi difficoltà e “ai problemi di Trevi si sono aggiunti quelli di Tecnis, Glf, Condotte, Astaldi, Cmc e dei loro indotti e fornitori”. Il tutto con “migliaia di lavoratori a rischio, professionalità di altissimo livello che ci invidiano nel mondo, cantieri bloccati e opere che vanno a singhiozzo”. E proprio a questo punto “mentre noi chiedevamo una politica industriale, rivendicavamo l’esigenza di avere grandi aziende, più solide per competere nel mondo, il Governo ci ha risposto con il decreto di riforma del Codice Appalti. Un decreto su cui il giudizio della Cgil e dell’intero movimento sindacale è noto. Così come è nota la contrarietà delle principali associazioni ambientaliste e di quelle impegnate contro le mafie”.
Al di là delle singole perniciose norme di cui si è parlato (ritorno al massimo ribasso, aumento del subappalto e così via), a essere sbagliato è il messaggio che questa norma sottintende: “Perché sembra dire che il problema che oggi abbiamo non è un problema industriale, non è un problema di investimenti pazienti, di solidità finanziaria, ma è solo un problema di regole e che quindi, liberato il mercato da lacci e lacciuoli tutto tornerà a girare”. Ma “per quanto importanti possano essere le politiche regolatorie – e a nostro parere al massimo potremmo chiamarle “deregolatorie” – esse non possono sostituirsi alle politiche industriali”.
Ed è proprio qui, su questa necessità, che s’innesta la proposta dello “sblocca cantieri finanziario”, che prende spunto da alcune idee lanciate da Marcello Minenna in un editoriale apparso sul Sole 24 Ore. La situazione da cui si parte è, come si diceva, drammatica. Solo a considerare le 25 opere contenute nel Def 2016 tra opere ferroviarie, stradali, metropolitane “stiamo parlando di cantieri bloccati, in sofferenza o a rilento che interessano 24.500 potenziali addetti diretti, 70 mila con l’indotto per un importo complessivo di oltre 12 miliardi congelati – sottolinea Genovesi –. Se ci riferiamo ai cantieri coinvolti dalle difficoltà delle prime 5 grandi aziende in concordato parliamo di 60 cantieri grandi e medi, si tratta cioè di 10 miliardi di lavori che diventano 13 con quelli revocati per un totale di quasi 23 mila lavoratori a rischio e di centinaia di milioni di euro su cui sono in sofferenza appaltatori e fornitori”.
Insomma, è evidente che ci troviamo di fronte a dati di sistema non risolvibili con qualche pannicello caldo deregolatorio. I nodi da sciogliere, secondo Genovesi, sono essenzialmente quattro: “Come rimettiamo in pista le imprese che, per crisi finanziaria e di liquidità, rischiano di tenere fermi i cantieri”; “come lo si fa riducendo l’esposizione debitoria a tutela tanto di chi viene comprato che di chi potrebbe acquisire”; “come fare tutto ciò consapevoli che le grandi quantità di crediti chiamano in causa anche la tenuta del sistema bancario”; come si coglie, infine, “questa occasione per un riposizionamento industriale delle aziende di costruzioni, che nel tempo si sono allontanate dalla loro missione di costruire per diventare soggetti finanziari”.
Le risorse per uscire da questa situazione ci sono. Da un lato, “l’oro nero rappresentato dagli oltre 1.400 miliardi di risparmi privati, di cui un terzo, lo ricordo sempre, è nel Sud”, dall’altro il ruolo pubblico dello Stato innovatore. Il riferimento esplicito è alla Cassa Depositi e Prestiti, proprio alla luce del suo piano industriale 2019-2021 che, ricorda Genovesi, si basa sul “passare dalla logica di finanziatore alla logica di programmazione”. Nel piano sono individuati “203 miliardi da attivare nei prossimi 3 anni, di cui 111 di risorse proprie e 92 miliardi da investitori privati ed istituzionali”, “funzionali alla riorganizzazione del portafoglio di Gruppo su una logica industriale e per settore di attività”.
“Ecco allora che vi sono tutte le condizioni per una proposta esplicitamente sostenuta dal sindacato – pensando anche allo stesso Progetto Italia lanciato da Salini – per una nuova stagione di politiche industriali, con un’idea di programmazione degli investimenti pubblici e privati a medio periodo, contro ogni logica speculatoria”, ha rimarcato il segretario generale della categoria delle costruzioni della Cgil.
Di qui, “tecnicamente”, la proposta di cui si diceva all’inizio: “Uno ‘sblocca cantieri finanziario’, nella possibile doppia veste di un Fondo nazionale Banche-Cdp che agisca anche tramite una specifica ‘società veicolo’, da un lato sostenendo le svalutazioni delle banche che trasformano i crediti in partecipazione azionaria, dall’altra ripatrimonializzando le imprese di costruzioni con risorse della Cdp, partecipando, di volta in volta e coinvolgendo sempre forti partner industriali, anche alla Governance”.
Un intervento di questo tipo per Genovesi può essere “occasione per una riorganizzazione interna delle grandi aziende, dei loro processi, delle loro articolazioni operative, della corretta valorizzazione delle professionalità, della riduzione delle sperequazioni che, inutile girarci intorno, vedono un rapporto anche salariale tra operai e impiegati da un lato, quadri e soprattutto dirigenti dall’altro molto alto, profondamente squilibrato, mortificante in diversi casi”.
Per evitare equivoci il sindacalista ha ribadito che questa operazione finanziaria “deve essere al servizio di un forte posizionamento industriale” e che in questo modo “non stiamo sostenendo altre operazioni finanziarie o la mera remunerazione di dividendi futuri”. Non solo: “Si accetti una nuova politica dell’intervento pubblico, del rapporto pubblico-privato, con una definizione diversa di cosa deve essere oggi aiuto di Stato. Si torni cioè a guardare con favore quello Stato che, pur nelle regole di mercato, sia soggetto attivo, soggetto innovatore”.
Infine, dopo aver analizzato, nei suoi aspetti positivi e nelle questioni ancora aperte il Progetto Italia di Salini (rispetto al quale Genovesi chiede (un confronto sindacale sul piano industriale e sulla riorganizzazione – direi quasi il riequilibrio – dei processi interni e delle diverse figure professionali”), Genovesi si è soffermato sul tema dell’indotto. Se è vero, infatti, che, in tutto il mondo sono meno di 30 le imprese che hanno il 90% delle grandi opere, è anche vero che “salvare le grandi imprese e qualificarne l’indotto non è alternativo a una politica mirata per le nostre piccole e grandi imprese”.
E proprio per le Pmi la Fillea chiede “strumenti ad hoc che avviino soprattutto una nuova stagione di rigenerazione diffusa dell’edilizia privata e pubblica, anche con strumenti finanziari specifici. Pensiamo alla cedibilità bancaria totale e cumulabile dei vari bonus per ristrutturazioni, risparmi energetici, anti sismico. Che poi è l’80% del mercato delle costruzioni. Il futuro dell’edilizia privata è nella rigenerazione, nel green building”.
Insomma, ha concluso Genovesi, “mettere due politiche diverse e anzi complementari, perché una rafforza l’altra, in alternativa è un errore concettuale ancor prima che economico. Sarebbe come dire che le grandi opere sono in alternativa alla messa in sicurezza del territorio, ad una nuova politica di edilizia scolastica o sanitaria. Per un Paese fragile ed in ritardo come il nostro servono entrambi, vanno fatte entrambe le politiche e queste si devono parlare in un rapporto virtuoso”.