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L’immagine bucolica del libero professionista che lavora rilassato dal patio della casa al mare o della partita Iva che ha tanto tempo a disposizione per andare in palestra o vedere gli amici, è offuscata da anni. Il lavoratore autonomo in Italia arranca per sbarcare il lunario, vive una condizione di precarietà, guarda al futuro con preoccupazione.
Dati Inps
I dati Inps sugli iscritti alla gestione separata in via esclusiva sono chiari: le partite Iva individuali, cioè i professionisti non iscritti agli ordini professionali, sono circa 380 mila, in crescita costante soprattutto fra le donne. Il loro reddito annuo è fermo a circa 16,9 mila euro lordi, e nel 2022 è rimasto invariato rispetto al 2021, nonostante l’inflazione all’8,1 per cento. La cosiddetta media del pollo non racconta però la realtà. Il 46,3 per cento di loro infatti guadagna meno di 10 mila euro e solo il 21,3 supera i 25 mila euro. E le donne sono più indietro: raggiungono i 14.313 euro all’anno, contro i 19.465 degli uomini, con un differenziale del 26,5 per cento.
Pensioni povere
Non basta. Sotto il profilo previdenziale le conseguenze di questa situazione saranno devastanti: i contribuenti netti, cioè coloro che versano senza avere un solo euro di contributo accreditato ai fini della pensione e di altre prestazioni sono quasi 30 mila, pari 22 per cento, e solo il 36 per cento raggiunge i
12 mesi di contribuzione necessari per totalizzare un anno di contributi.Equo ma per pochi
La legge sull’equo compenso entrata in vigore quest’anno, la 49/2023, ha cambiato poco o nulla di questa situazione: interessa meno di 200 mila professionisti su oltre tre milioni di lavoratori autonomi complessivi e si applica solo ai grandi committenti: pubblica amministrazione e società a partecipazione pubblica, banche, assicurazioni, grandi aziende.
Escluse dall’obbligo di applicazione le piccole e medie imprese, e quindi chi lavora con loro, ovvero l’80 per cento dei professionisti e degli autonomi con gestione separata. Tutti questi temi vengono affrontati nell’incontro “Diritto all’equo compenso. Voci e proposte a confronto”, organizzato a Milano l’8 novembre da Nidil e Apiqa, in vista dello sciopero nazionale proclamato da Cgil e Uil, per condividere i punti di vista sulla situazione del lavoro autonomo in Italia.
La paga di riferimento
“Il punto è che questi lavoratori vengono pagati troppo poco e quindi non hanno un compenso equo – afferma la segretaria nazionale del Nidil Cgil Roberta Turi -. Quando parliamo di compensi equi per le partite Iva genuine (lasciando quindi da parte i finti lavoratori subordinati, costretti ad aprire la partita Iva) parliamo di minimi retributivi che devono fare riferimento ai contratti collettivi nazionali. La paga oraria non deve essere quella netta, ma il costo azienda, nel quale sono quindi compresi la quota di tredicesima, l’accantonamento per il tfr, i contributi e così via”.
In questo senso, l’equo compenso va di pari passo con il salario minimo, agganciati entrambi ai contratti collettivi nazionali. “Per noi la battaglia è la stessa – prosegue Turi -. La norma sull’equo compenso, che abbiamo criticato perché si rivolge a una platea ristretta, prevedeva che il governo entro 60 giorni emanasse un decreto per fissare i parametri per le professioni non ordinistiche, cioè la miriade di partite Iva. I 60 giorni sono scaduti il 19 luglio, il decreto non c’è e non ci risulta nemmeno che ci si stia lavorando”.
Terreno comune
“È necessario che il governo intervenga sulle dinamiche del mercato del lavoro con interventi strutturali – spiega Andrea Borghesi, segretario generale Nidil –. È ora di definire per tutti i lavoratori un compenso minimo agganciato ai minimi retributivi previsti dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Questo è un terreno comune di azione e di lotta: un salario minimo orario per i subordinati e un equo compenso per collaboratori e professionisti, che comprenda la quota di contributi previdenziali. Si realizzerebbe così un pavimento salariale non sfondabile valido per tutti che aumenterebbe il reddito disponibile, rafforzerebbe la contrattazione collettiva e ridurrebbe il dumping tra tipologie contrattuali che oggi è a tutto vantaggio delle imprese.”