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Ancora una volta. L’ennesima. E purtroppo non sarà l’ultima. Oggi Calenzano, domani chissà. In questa straziante autonomia indifferenziata delle stragi sul lavoro. Delle morti quotidiane, tre al giorno, consumate nell’assuefazione generale. Ogni volta le stesse parole, lo stesso cordoglio, le stesse promesse. Lo stesso editoriale che sto scrivendo e riscriverò. Tutti complici a ripetere la solita litania, il solito cordoglio. A promettere il solito cambiamento. Ma tutto resta immobile, sospeso, impalpabile.
La verità è che il lavoro in Italia è diventato una roulette russa. Un colpo secco sparato alla dignità individuale. Quasi sempre ti va bene, ma può arrivare il giorno in cui i titoli di coda fermano tutto. E non arrivano mai per caso. Perché anche la morte, seppur imprevedibile, non è mai una fatalità. Perché ogni vittima è il risultato di una catena di mancanze precise e responsabilità collettive: normative non rispettate, controlli insufficienti, formazione carente e complicità di un certo modo di fare impresa.
A Calenzano, come nel resto d’Italia, queste lacune si trasformano spesso in lutti. Risultato di scelte sbagliate, di priorità distorte che mettono il profitto davanti alla sicurezza. Ogni incidente può essere evitato se solo ci fosse maggiore consapevolezza del rischio. Ma il mercato se ne frega e la prevenzione è un costo da tagliare anziché un investimento da incentivare. Così le vite umane diventano numeri in statistiche che si aggiornano inesorabili.
E poi un dettaglio non da poco. Sempre più spesso le stragi sul lavoro si verificano dove prolifera il far west delle regole. Dove grandi imprese si nascondono dentro enormi scatole cinesi. Dove ditte esterne, appalti, subappalti fanno a gara a scaricarsi le responsabilità. Dove la trasparenza non ha cittadinanza e l’incidente è un rischio del mestiere. Iniziare ad interrompere questo circuito criminale darebbe un segnale importante. Salvare concretamente qualche vita invece che rimpiangerla deve essere un obiettivo comune. Altro che chiacchiere.