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In principio c’era la Fiat. Torino era la capitale dell’industria italiana. Tutto girava intorno alla grande fabbrica e alla massa degli operai che la mandavano avanti. E persino gli orari dei tram si regolavano sulle sirene dei tre turni.
Alla fine di questa parabola ci sta lo stabilimento ormai vuoto della Embraco di Riva presso Chieri e 377 donne e uomini che da oggi, sabato 22 gennaio 2022, non percepiscono più la cassa integrazione. Persone di età media tra i 45 e i 55 anni. Per loro quel filo sottile che li legava ancora a un posto di lavoro – sulla carta, perché da tempo non vedevano più una linea di produzione - si spezza definitivamente qui e ora. Tutto finito, quel posto non esiste più, nonostante lo abbiano difeso con rabbia e disperazione per quattro anni di vertenza. Da oggi sono in Naspi, inseriti nelle stantie trafile delle politiche attive.
Da Torino sono 30 minuti di auto. Lasciandosi alle spalle Superga, giù per la discesa, da Pino torinese, una rotatoria dopo l’altra, passando prima per Chieri, si arriva a Riva presso Chieri. È qui che negli anni Settanta apre il secondo stabilimento della Aspera, azienda nata nel boom industriale del secondo dopoguerra. Azienda che brevetta compressori per la refrigerazione, i motori per frigoriferi, all’interno della galassia Fiat, perché la Fiat faceva anche elettrodomestici. Ed è in questo piccolo centro della cintura urbana che finisce per concentrarsi tutta la produzione, una volta che si decide di chiudere il primo sito a Torino.
Negli anni Ottanta entra in scena Whirlpool. Il gigante americano, in grande espansione, rileva la fabbrica. Negli anni Novanta la inserisce nel suo ramo compressori che fa capo alla multinazionale brasiliana Embraco. In quel periodo inizia il lento processo di delocalizzazione, destinazione Slovacchia, dove viene aperto uno stabilimento nel quale, piano piano, inizia ad essere spostata la produzione. Un processo che punta alla riduzione, goccia a goccia, del personale. A una spanna dal nuovo millennio sono ancora oltre duemila i dipendenti e ci sono persino nuove assunzioni. L’iter è morbido, senza strappi, si abbassa appena il ritmo del ricambio, a mano a mano che i vecchi operai vanno in pensione.
Ma già nel 2004 il personale è dimezzato. In una manciata di anni da duemila si passa a poco più di mille dipendenti e arriva il primo macigno nello stagno: la Embraco dichiara la volontà di voler chiudere lo stabilimento. “All’epoca – ci racconta Ugo Bolognesi, Fiom, responsabile della Quinta Lega, che ci aiuterà a ricostruire la vicenda – la mobilitazione coinvolse tutti i lavoratori, il sindaco di Torino, Chiamparino, la Regione. E alla fine ci fu un accordo al ministero: l’azienda fece marcia indietro sulla chiusura. In cambio ottenne ammortizzatori sociali senza interruzione e un sostegno pubblico attraverso l’acquisizione di una parte degli immobili da parte della Regione Piemonte. Arrivarono soldi pubblici per non farla chiudere, ma fu permesso alla Embraco di continuare il processo di riduzione. L’impegno, firmato a inizio 2005, fu di non chiudere prima del 2011. E la situazione andò avanti altalenante. Periodicamente si arrivava a un momento di tensione al culmine del quale si evitava la chiusura a suon di ammortizzatori sociali e fondi pubblici”. Per scongiurare la fuga delle multinazionali si andò avanti così fino all’ottobre del 2017. Un conto salato di qualche decina di milioni di euro. In cambio di niente, nessuna garanzia, nessuna inversione di tendenza, solo il quieto vivere, la difesa dell’esistente, un piatto sempre più magro.
Ottobre 2017. “Al primo incontro cui partecipo – ci racconta Ugo Bolognesi – ci viene comunicato che entro fine anno avrebbero esaurito gli ammortizzatori sociali e non avrebbero investito. A quel tempo l’azienda aveva 537 dipendenti, ma il management ci disse che il lavoro che avevano era sufficiente per la metà degli operai. Insomma, ci fecero capire che a breve sarebbe arrivato un licenziamento collettivo, quanto meno un dimezzamento del personale. E in quel momento parte la vertenza. Le lotte, gli scioperi, il picchetto ai cancelli, la denuncia, poi ritirata, perché bloccavamo i camion in ingresso e in uscita. Passammo davanti al capannone Natale, Capodanno, la Befana. E proprio il 6 gennaio del 2018 venne per la prima volta in visita al presidio il vescovo di Torino, Cesare Nosiglia, e l’azienda – commenta amaro Bolognesi - non lo fece entrare. L’8 gennaio 2018 arriva la comunicazione ufficiale che la multinazionale avrebbe chiuso lo stabilimento e licenziato 537 operai. La lotta si inasprisce. Già da ottobre avevamo coinvolto tutte le istituzioni, fatto la mappatura di tutti i dipendenti. Chiamammo a raccolta tutti i sindaci, andammo in Regione Piemonte e ottenemmo l’apertura di un tavolo di crisi al ministero dello Sviluppo Economico, ministro Calenda”.
Torniamo a quel gennaio del 2018. La campagna elettorale entra nel vivo. Partono i 75 giorni in cui si dovrebbe consumare la procedura di licenziamento. La lotta si inasprisce. In poche settimane l’impegno e la rabbia dei lavoratori, sostenuti da sindacati e istituzioni locali, porta gli operai in delegazione a incontrare il premier di allora, Gentiloni, al Lingotto per un’iniziativa; Papa Francesco in udienza in Vaticano; il presidente del Parlamento europeo Tajani a Bruxelles. “Coinvolgiamo anche il ministro Calenda. Anche lui ha difficoltà a relazionarsi con la dirigenza Embraco. Pubblicamente li definisce gentaglia e annuncia che non tratterà più con loro. Gli dà addosso di brutto, insomma. Neanche la promessa di nuovi ammortizzatori sociali convince i dirigenti Embraco e una sera Calenda, dopo l’ennesima fumata nera al termine di un incontro in prefettura a Torino, scende in piazza e imbraccia il megafono per parlare con i lavoratori.
A metà febbraio 2018 a Bruxelles chiediamo ai nostri parlamentari europei e al presidente Tajani di bloccare questa delocalizzazione che sfruttava il dumping dentro ai confini stessi dell’Unione. In Slovacchia il costo del lavoro è più basso, il fisco è meno impattante, gli impegni ambientali sono più convenienti, la Slovacchia riceveva sovvenzioni europee. Tutti i politici, da estrema destra a estrema sinistra, si prendono con noi l’impegno di portare a casa un provvedimento del Parlamento europeo che abbatta il dumping e la concorrenza sleale. Rimase tutto sulla carta, non successe assolutamente nulla. Nessuno diede seguito a quelle parole”.
Ma un effetto quel viaggio in Europa lo produce. Whirlpool incarica il capo del personale del gruppo in Italia, Carmine Trerotola, di prendere in mano la situazione. Trerotola vuole ricucire. Siede al tavolo per trovare una soluzione e parla con il ministero. Propone la sospensione della procedura di licenziamento fino alla fine del 2018 con l’obiettivo di avviare un processo di reindustrializzazione. Il 4 marzo, convocati al Mise, presente Calenda, sul tavolo l’azienda mette anche un accordo di uscita incentivata per chi non aderisce al progetto di reindustrializzazione. Un centinaio di operai accettano i 60mila euro lordi messi sul piatto da Whirlpool. Gli operai diventano così 430 circa.
“Dopo quell’incontro Calenda si presenta in assemblea nella mensa dello stabilimento. Un ministro in una fabbrica di un paesino di provincia non si era mai visto. Viene accompagnato dal presidente della Regione Piemonte e dell’ad di Invitalia, Domenico Arcuri. Spiega ai lavoratori e alle lavoratrici come funzionerà il processo di reindustrializzazione e gli dice di fidarsi, di aderire. Indicando Arcuri (e non stava scherzando, era serio), dichiara che se il progetto non avesse funzionato, sarebbe diventato il loro prossimo datore di lavoro, come Invitalia. I lavoratori pensano di essere davanti a un impegno serio e importante e di potersi fidare”.
La storia finirà male. Dopo mesi di selezioni arriva la newco Ventures. Li ha selezionati e li presenta la Whirpool, che garantisce sulla loro affidabilità. Imprenditore israeliano, Ronan Goldstein, e soci italiani (la famiglia comasca di Nino Di Bari). “Ci spiegano che nello sviluppo delle energie rinnovabili il pannello fotovoltaico, per produrre energia, deve essere sottoposto a pulizia e manutenzione. Il prodotto, definito rivoluzionario, è un drone pulitore di pannelli fotovoltaici. Si parla addirittura di commesse già sicure, tra cui il primo produttore di energia rinnovabile cinese, la Guandong Solar Energy che, viene raccontato, entrerà nel capitale sociale della nuova azienda con una quota del 15%. Faremo profitti a tre cifre – millanta l’imprenditore -, non solo li prendo tutti i lavoratori, ma ne assumo di altri. Tutto bello a parole, un futuro radioso e ecosostenibile. Ricordo ancora che quando uscimmo da quell’incontro, c’erano giornalisti, televisioni, e mi viene in mente una frase che dichiaro alle telecamere: la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”.
Luglio 2018. I lavoratori passano da Embraco a Ventures. Partono i 24 mesi di cassa integrazione per riorganizzazione. Solo una parte avrebbe lavorato per smontare i vecchi impianti e fare spazio alle nuove linee. Secondo un preciso piano di rientro, entro l'estate del 2020 tutti sarebbero stati di nuovo al proprio posto. “Noi sindacati a fine 2018 chiediamo l'incontro per monitorare l’andamento dei lavori. All’inizio del 2019 ci incontriamo. Ventures ci invita a venire nello stabilimento. Il capannone era completamente vuoto, se si eccettua una parte chiusa con pareti da container che – ci dissero – era il punto in cui sviluppavano i nuovi prodotti. Ma era chiaro, già a una prima occhiata, che ci prendevano in giro. Ci dicono che avevano avuto molti problemi, che gli impianti sarebbero arrivati. Alla fine gli diamo un mese di tempo, fino a febbraio 2019. Dopo un mese la situazione era la stessa. Mandiamo subito richiesta di intervento al Mise. Ministro Di Maio, cui spettava il monitoraggio visto che il Ministero si era fatto garante del progetto. A marzo gli impianti, in realtà mai ordinati, devono ancora arrivare, ma il Mise gli dà credito e gli concede altri tre mesi di tempo, impegnandosi (viene riportato sul verbale d'incontro) a riconvocare il tavolo entro giugno. E questo impegno non lo mantennero, il ministro Di Maio non mantenne la parola data”.
(La fine di un'epoca. Operai smontano l'insegna Embraco sul capannone)
Ma che cosa c’era dietro alla truffa di Ventures? “Quando Whirlpool schiera Trerotola e propone la reindustrializzazione – ci spiega Ugo Bolognesi – si propone di sostenerla anche economicamente e istituisce un fondo di poco più di 20 milioni di euro. Soldi che dovevano servire a Ventures per finanziare i vari passaggi: 4 milioni per comprare gli impianti, il restante su un conto da cui Ventures poteva attingere per pagare le retribuzioni dei lavoratori. Infatti i soci Ventures continuano a rispettare gli impegni sul piano di rientro anche se il capannone resta vuoto”. Si arriva al paradosso che ai lavoratori, per tenerli occupati, una settimana veniva chiesto di dipingere le pareti di verde, quella dopo di azzurro. Addirittura, qualcuno, come attività accessoria, viene impiegato in un’attività collaterale di montaggio e smontaggio bici elettriche. Al terzo mese tutti ebbero la certezza che si trattasse di un’enorme presa per i fondelli.
Agosto 2019. Dopo avere passato giugno e luglio a chiedere il rispetto dell'impegno a convocare il tavolo al Mise, cambia di nuovo il governo. Siamo ai giorni del Papeete. Mentre Salvini trangugia mojito in spiaggia, i 430 dipendenti della Embraco sono ostaggio di una multinazionale fantasma e di un progetto di reindustrializzazione che dopo 13 mesi non ha prodotto neanche un robot pulitore. Di Maio è scomparso. Il tavolo promesso tra giugno e luglio è stato ingoiato dalla crisi di governo. Riparte la mobilitazione.
“Facciamo il casino che andava fatto – ci dice senza mezzi termini Ugo Bolognesi –. Non c’era più alcun dubbio che fosse una presa per il culo. Cirio, diventato presidente di Regione, viene con noi a manifestare sotto il Mise e ci confessa che è la prima manifestazione della sua vita. Nel frattempo il ministro dello Sviluppo Economico è diventato Patuanelli. Incontriamo Alessandra Todde, neo sottosegretaria che segue le vertenze. Fino al tavolo di novembre la protesta è continua: presidi, blocchi stradali, manifestazioni a Rho, sotto gli uffici della Whirlpool. Gli americani si rendono conto che non possono stare tanto al gioco e bloccano il fondo. Infatti, già la mensilità di dicembre 2019 non viene pagata. Eppure la Todde continua a dare fiducia a Ventures. Nel 2020 presentiamo un esposto alla procura, che apre un fascicolo di indagine su ipotesi di banca rotta distrattiva, indagine che non si è ancora chiusa. Le cronache, a giugno 2020, parleranno di almeno 3 milioni di euro, secondo la procura di Torino, usati per pagare finte consulenze d'oro a proprietari e manager della società, comprare 5 auto di lusso ed estinguere sofferenze bancarie personali.
(Manifestazione dei lavoratori Embraco)
Scoppia la pandemia. I lavoratori tornano tutti in cassa integrazione. Sono i giorni dell’emergenza sanitaria, del lockdown. La Ventures approfitta della cassa Covid, ma la situazione resta congelata e a luglio 2020 il tribunale fallimentare di Torino dichiara la Ventures fallita. Neanche il Mise può dare più credito ai soci israeliani comaschi. A metà luglio 2020 riusciamo a ottenere i 12 mesi di cassa integrazione straordinaria per cessata attività e continuiamo a chiedere ripetutamente l’intervento del ministero”.
Settembre 2020. Viene convocato un incontro a Torino, al palazzo della prefettura, tutti presenti. Istituzioni, governo – presente Alessandra Todde – e Maurizio Castro, commissario straordinario della Acc Wanbao di Mel, provincia di Belluno, altra fabbrica storica di compressori per frigoriferi sedotta e abbandonata, nel giro di pochi anni, da una multinazionale cinese. “Il sottosegretario al Mise ci dice: ho la soluzione! Si torna a produrre compressori, c’è un piano per costituire l’Italcomp, una newco che nascerà dalla sinergia di ex Embraco e Acc. Castro ci spiega quanto la pandemia abbia reso evidente un punto debole dell’economia industriale legato alla delocalizzazione delle produzioni verso Cina, Taiwan e Corea. Noi oggi in Europa siamo dipendenti dall’Asia, ci dice. Se non partono navi container con i componenti, elettrodomestici qui non se ne fanno. Le multinazionali stanno chiedendo di ritornare a fare produzioni in Europa. Tra pandemia, motivi geopolitici, navi che si incagliano nel canale di Suez, abbiamo bisogno di certezze. Anche perché le cifre del mercato del bianco – ce le mostra – rilevano un boom di acquisti online. Il mercato è esploso. Morale della favola, ha senso investire per ricominciare a produrre compressori nel nostro Paese. L’investimento vedrà la spinta iniziale del Mise, di Invitalia e delle finanziarie delle regioni coinvolte, Piemonte e Veneto, con capitale sociale di partenza al 70 per cento pubblico e al 30 per cento partecipato da privati. Italcomp produrrà milioni di compressori, a Riva di Chieri i motori, a Mel l’assemblaggio finale”. Bingo, pensano tutti. Il progetto sarà in grado di salvare tutti i posti di lavoro. “Bellissimo – commenta Ugo Bolognesi tornando con il pensiero alle sensazioni che ebbe quel giorno –, finalmente abbiamo un governo che fa politica industriale. Non sembrava neanche vero. Non puoi pensare che sia una bufala, anche stavolta, con tutti quei presenti, il ministero che ci mette la faccia. I lavoratori sono rinfrancati, torneremo a fare quel che sappiamo fare, i compressori”.
Anche stavolta però con il passare del tempo le speranze vengono tradite e il piano di reindustrializzazione si rivela un bluff. Si costituisca la società, si versino i capitali, incalza la Fiom, sia da Torino che da Belluno. La Todde, ci racconta Bolognesi, nicchia. “Ci diceva che bisognava aspettare di rimettere in sesto le finanze della Acc Wanbao in crisi di liquidità. Questa fu la risposta alle nostre pressioni fino alla fine del 2020. Eppure, nel frattempo, in pieno novembre la Todde pubblica un post sulla sua pagina Facebook dove lei e Patuanelli spiegano di aver salvato centinaia di posti di lavoro con il progetto Italcomp.
Fine 2020. A uno degli eventi connessi con il lancio Fca della nuova 500 elettrica – “altra iniziativa di propaganda aziendale, a pochi mesi dal varo di Stellantis”, commenta Bolognesi – Patuanelli e Todde vengono a Torino a fare la passerella e ad attaccare la spina dell’auto rosso fiammante. Tutto in favore di telecamere. Un giornalista gli fa una domanda su Embraco e Patuanelli rivendica di aver salvato 700 posti di lavoro, mentre la Todde parla del progetto Italcomp come se fosse già stato avviato.
Gennaio 2021. Ancora niente di concreto su Italcomp, mentre cambia di nuovo l’inquilino di Palazzo Chigi. Stavolta c’è Draghi e il suo governo dei migliori. Al Mise esce Patuanelli, entra il leghista Giorgetti. La Todde viene promossa: da sottosegretario diventa viceministro. “Noi facciamo partire le richieste alla Todde senza ricevere risposte. Si arriva ad aprile 2021. Un giorno decidiamo di fare una manifestazione dura sotto il palazzo della prefettura e quel giorno viene il prefetto tra i manifestanti e si impegna a farci ottenere un incontro. Effettivamente il Mise lo convoca per il 24 aprile, da remoto. La Todde continua a sostenere che Italcomp è un progetto valido, ma che resta il problema di Acc. Poi arriva il fulmine di Giorgetti, che parlando della vertenza attraverso lanci di agenzia, dichiara che quel progetto non è mai esistito e non è praticabile. Lì capimmo che il progetto era stato cestinato dal nuovo governo. I lavoratori già da tempo picchettano ogni giorno in tenda il palazzo della Regione in piazza Castello. La verità è che il ministro Giorgetti non l’abbiamo mai incontrato. Cirio già a giugno inizia a dire che serve un piano B”.
(Striscione di protesta al presidio permanente di Piazza Castello a Torino, davanti al palazzo della Regione)
Luglio 2021. Scadono i 12 mesi di cassa integrazione per cessata attività. I sindacati riescono ad avere una proroga di sei mesi, fino al 22 gennaio 2022. E l’impegno dal Mise e dai consigli regionali a concepire un progetto alternativo. “Sono i mesi della campagna per le comunali, noi parliamo con tutti e tutti prendono impegni, ma già a settembre in un consiglio regionale dedicato si collega Annibaletti, vero delegato del governo alle crisi industriali, e ci fa capire che la partita è chiusa, il mercato, entità divina soprannaturale e onnipotente ha sentenziato l'impossibilità di creare un nuovo player italiano nei componenti per elettrodomestici. In sostanza ci dice che al Mise non sono contro la reindustrializzazione, ma che sono affari nostri, non sono loro a doversi attivare. Il Mise, insomma, non è interessato a provarci.
Dicembre 2021. Ultimo incontro. “Ci è stato detto che la reindustrializzazione non esiste, esiste solo il piano di ricollocazione a norme attuali. Sgravio contributivo per chi assume un ex dipendente della ex Embraco, come prevede la legge del 2012. Ci restano le politiche attive della Regione che ti fa il profilo e ti orienta, con i corsi di formazione e i centri per l'impiego. Lo sappiamo quanto funzionano queste politiche attive. Nel frattempo Whirlpool ha proposto di dare i 10 milioni rimasti nel fondo al curatore fallimentare, per pagare i debiti del fallimento e un risarcimento di 7000 euro lordi ai lavoratori, a fronte di un accordo di rinuncia a qualsiasi controversia. Gli avvocati della Whirlpool – ci dice Ugo Bolognesi con amarezza – sono riusciti persino a rinfacciarci che quei 10 milioni erano loro, se li sarebbero anche potuti riprendere. Stavolta per ulteriori ammortizzatori sociali è finita, ci risponde Annibaletti,, non ci sarà alcuna proroga”.
Sono 377, età media 45/55, tante donne. Famiglie, ragazzi che sono entrati a fine anni Novanta, a 20, 25 anni, alcuni si sono anche sposati con colleghi e oggi hanno famiglia. “Persone che da quattro anni sono assediate dai debiti e dalle difficoltà. In tantissimi si rivolgono alla Caritas per i pacchi spesa. Alcune famiglie hanno dovuto vendere la casa e tornate a vivere dai genitori. Qualcuno si è fatto persino ospitare dagli amici”.
Ma di chi sono le responsabilità? “Sono tante – risponde amaro Ugo Bolognesi, quasi a voler dire ‘troppe per elencarle tutte’ –. La prima reindustrializzazione era farlocca ma era stata garantita da Whirlpool e dal Mise. La seconda è abortita prima di nascere perché il piano industriale di Italcomp presentato in pompa magna è scomparso con il cambio del governo. E la Todde è rimasta zitta. Ed era tutto scritto nel discorso di insediamento di Draghi che disse che il suo governo non avrebbe più sostenuto le aziende zombie e che si tornava al mercato duro e puro. Si è deciso di ritornare all’idea che il governo al massimo sostiene, ma non è attore della politica industriale. È il privato che decide come si produce, cosa, dove. Annibaletti stesso ci ha detto che era il mercato ad aver deciso che quel progetto non funzionava, non il ministro o il vice ministro. E poi, dentro a questa storia ci sono le dinamiche di multinazionali come la giapponese Nidec cui Whirlpool, nel 2018, diede Embraco per un miliardo di euro, rafforzando il suo ruolo di dominio nel mercato dei compressori e dando ancor più prestigio alla sua fabbrica in Austria: questa Nidec non voleva un concorrente". Ci sono persino retroscena che parlano della Lega amica del governo austriaco.
Tante, troppe responsabilità. Tanti, troppi miliardi di euro, per preoccuparsi di poche centinaia di operai. In principio c’era Torino, capitale industriale italiana, di cui rischia, alla fine di questa e di altre storie come questa, di non restare più nulla.