“Se hai una famiglia disfunzionale non dipende da nessuno, un servizio che non funziona invece sì”. Sono le parole di una ragazza che dentro i servizi ci è cresciuta, una giovane donna che ha vissuto parte della sua vita in una comunità per minori. Parole che ci permettono di aprire una finestra sul mondo del sociale, dell’accoglienza, di chi si prende cura di bambine e bambini, ragazze e ragazzi.

Minori che crescono lontani dalle famiglie di origine in quei luoghi chiamati comunità o case famiglia dove a occuparsi di loro ci sono uomini e donne che hanno scelto un mestiere spesso troppo poco valorizzato e considerato. Persone ricche di cuore probabilmente, vista la scelta lavorativa, ma povere nel portafoglio perché i salari di chi lavora in queste strutture non sono proporzionali all’impegno, alla responsabilità e al ruolo che dovrebbero essere loro riconosciuti.

Professioni sociali considerate di serie b

Un problema proporzionalmente in linea con quanto lo Stato, attraverso le amministrazioni locali, destina alle strutture attraverso i contribuiti previsti dalla legge. “Le professioni sociali sono state sempre considerate di serie b nei servizi di aiuto alla persona se comparate a quelle sanitarie”, spiega Gianni Fulvi, presidente del Coordinamento nazionale comunità per minori (Cncm). 

“Risentiamo molto in Italia, più di altri Paesi, dell'idea che il lavoro sociale debba avere una prevalente matrice solidaristica, di benevolenza piuttosto che scientifica-tecnica  – continua Fulvi –. L'idea che basti buona volontà per occuparsi delle persone in difficoltà, e tanto più dei minorenni in protezione, è molto presente ma profondamente errata”. Per il presidente del Cncm la professione dell'educatore è “poco valorizzata e, per questo, anche il riconoscimento economico è basso. Forse la creazione dell'albo per gli educatori potrà migliorare la considerazione della professione, come accaduto per gli psicologi e assistenti sociali”.

Il welfare privatizzato

“A questo si lega il fatto che il sistema del welfare si sta sempre più privatizzando – specifica Gianni Fulvi – attraverso gare a ribasso che colpiscono la qualità dell'intervento con il rischio del venir meno della risposta universalistica del pubblico”. “Questo aspetto potrebbe essere esasperato proprio dall’autonomia differenziata: già oggi abbiamo livelli di intervento diverso da regione a regione, il rischio è che aumentino le distanze di assistenza creando sempre più cittadini con diversi diritti nello stesso paese”, precisa.

Sul tema interviene Stefano Sabato, coordinatore cooperative sociali per la Fp Cgil: “L’autonomia differenziata aggraverà ulteriormente le differenze territoriali nella presa in carico dei minori e più in generale delle fragilità presenti nelle nostre comunità frantumando definitivamente le già evidenti divergenze locali nell’accesso ai servizi e con riflessi già in atto nelle retribuzioni del personale coinvolto”. 

“La valorizzazione delle professioni di cura – aggiunge il sindacalista - passa dal rinnovo dei ccnl di settore e da investimenti importanti nei servizi socio sanitari assistenziali ed educativi. Investimenti senza i quali - conclude - sarà difficile garantire la tenuta di servizi di qualità anche a causa della fuga delle educatrici ed educatori che si registra oramai da anni verso altri settori”. 

In Italia, per fare un esempio, la differenza di salario tra un educatore e un responsabile di comunità è minima per cui, si chiede Fulvi, “per quale motivo un educatore dovrebbe decidere di fare carriera? Che investimento reale vede davanti a sé?”. Una domanda, ad oggi, senza risposta. Sarà necessario trovarla però per continuare a garantire un servizio adeguato agli utenti e ai lavoratori.

Fare l’educatore oggi

Essere nella relazione, quando l’io incontra l’altro, è lì che anche dove ci sono crepe entra la luce, per citare Leonard Cohen. È questo concetto ad aver spinto Massimo Starita a scegliere di fare l’educatore come professione. “Sono partito dalla scelta delle materie che riguardavano lo sviluppo e il comportamento umano – ci racconta - non riuscivo a immaginare come sarebbe stato il lavoro da educatore ma, anche se non del tutto cosciente, sentivo un’attrazione verso un mestiere che ha come principale strumento il proprio essere nella relazione”.

Massimo lavora come educatore dal 2017 e guadagna circa 1.300 euro, per 38 ore a settimana divise in turni, per garantire il servizio 24 su 24, 7 giorni su 7, notti comprese. “Oggi faccio parte di una cooperativa sana – specifica - che ha però difficoltà nelle entrate e quindi non sempre riesce a garantire la cadenza mensile degli stipendi”.

La giornata in comunità

La giornata di un educatore in comunità inizia con il passaggio di consegna con i colleghi del turno precedente, su cosa si deve fare e cosa è successo nelle ore precedenti. La giornata è scandita dalle attività e dagli impegni degli ospiti, l’andamento del tempo trascorso insieme a loro, racconta Massimo, “è il più possibile simile a quello di una vita familiare, in cui noi siamo gli adulti di riferimento, che cercano di creare un clima di accoglienza e comprensione che permetta loro di sviluppare le loro potenzialità”.

Mancanza di riconoscimento

Ma il ruolo sociale dell’educatore, denuncia il lavoratore, non è riconosciuto: “Nella stragrande maggioranza delle persone ci sono tanti pregiudizi, una non conoscenza effettiva del ruolo svolto e una sottovalutazione dell’importanza nei contesti extra scolastici”. “È un lavoro complesso che avrebbe bisogno di una maggiore collaborazione con altri servizi, anche sanitari ed educativi, perché servirebbe un lavoro di rete”, che aiuterebbe utenti e lavoratori.

Si vive e si lavora con difficoltà “come per altri tipi di lavori che oggi in Italia non sono equiparati al costo della vita”, ci tiene a sottolineare l’educatore ma, conclude, “nelle professioni di aiuto c’è carenza di personale perché, a priori, non c’è una prospettiva di guadagno adeguato e perché, a livello culturale e politico, non ne viene riconosciuto l’effettivo valore”.