Il governo vuole modificare oltre 100 articoli del Codice degli Appalti. A breve, dopo i pareri recentemente espressi da Consiglio di Stato e Conferenza Stato-Regioni sarà la volta delle commissioni parlamentari di Camera e Senato. A prima vista, si direbbero modifiche tecniche, ma subito la Cgil ha sottolineato la valenza politica e gli effetti molto concreti che avrebbero per i lavoratori. “Altro che aggiustamenti tecnici, siamo di fronte ad un’operazione politica e sociale chiara ed evidente: tornare indietro rispetto alle conquiste degli ultimi anni”, esordisce così Alessandro Genovesi, già segretario generale degli Fillea e da qualche settimana responsabile contrattazione inclusiva, appalti e lotta al lavoro nero per la Cgil nazionale.

IMAGOECONOMICA
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Alessandro Genovesi

“Si colpiscono i lavoratori, perché si colpiscono gli strumenti principali a loro tutela - continua -, ossia i contratti collettivi nazionali di lavoro e le principali organizzazioni sindacali. Le modifiche però andranno anche oltre il Codice, perché rischiano di incidere sull’intero assetto delle relazioni industriali. Verrebbe quindi colpito un aspetto fondamentale della democrazia economica in questo Paese, che è parte essenziale della democrazia. Di questo si tratta, e di questo devono avere consapevolezza tutti, forze politiche e istituzioni”.

Il tema è molto complesso, eppure molto concreto. In cosa consiste questo attacco?
Di fatto s'indebolisce il duplice principio previsto dal Codice attuale, per cui è l’attività oggetto dell’appalto, anche svolto in maniera prevalente, “a fare” il contratto collettivo da applicare, insieme alla comparativamente maggiore rappresentanza dei soggetti firmatari. Le modifiche proposte inseriscono tante di quelle variabili che, se non modificate o cancellate, porteranno caos e dumping contrattuale, secondo le peggiori pratiche del mercato privato. Si tenga conto che stiamo parlando di quello che rimane comunque un settore alimentato da risorse pubbliche (oltre 280 miliardi l’anno, dati 2023 ndr), e che dovrebbe essere una leva industriale per far crescere qualità, dimensione d'impresa e valore aggiunto, oltre che garantire il massimo delle tutele economiche e normative. Con il nuovo allegato I.01 si introducono invece ulteriori indicatori rispetto all’attività oggetto dell’appalto. C'è poi il principio della “dimensione” e della “natura giuridica dell’impresa” che sancisce in modo automatico l’equivalenza tra contratto collettivi nazionali diversi da quelli indicati dalla stazione appaltante. Aspetto contestato dallo stesso Consiglio di Stato perché le condizioni che un firmatario ha, rapporti di forza, modello contrattuale, ecc..., in un ambito non sono le stesse che potrebbe avere in un altro, con tutele economiche e normative prodotte dai contratti collettivi nazionali anche diverse tra loro. La stazione appaltante, poi, non potrà più fare del rispetto o meno delle tutele indicate da quello specifico contratto un elemento per accettare o respingere l’offerta dell’operatore economico.

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Perché dici che si colpiscono anche le principali organizzazioni sindacali?
Perché per la prima volta verrebbero normati i criteri della “comparazione” ai fini della rappresentatività maggiore, con criteri che introdurrebbero ulteriore vulnus sulla reale consistenza dei firmatari, allontanandoci ancora di più dalla certezza e cogenza di un accordo in virtù, se non della norma mai applicata, sicuramente dello spirito dell’articolo 39 e dei principali accordi interconfederali siglati in tutti i decenni passati, a partire da quelli sottoscritti con le principali associazioni datoriali. Mi spiego meglio: nella norma proposta vi è come criterio per essere “comparativamente più rappresentativi” la consistenza degli associati ai sindacati e alle associazioni datoriali, criteri condivisibili tanto che chiediamo diventi obbligatoria la dichiarazione in Uniemens di questi dati. Ma si inseriscono poi anche altri criteri di “pari grado”, come il numero delle sedi di un’organizzazione o il numero dei contratti firmati o l’essere presenti, magari perché nominati da questo o quel governo, nel Cnel. Il risultato è che si possono avere contratti collettivi nazionali firmati da organizzazioni con centinaia di migliaia di iscritti, con migliaia di Rsu, votati da tantissimi, che valgono giuridicamente quanto contratti firmati da chi ha poche decine di iscritti ma ha 500 sedi, con una targhetta o una casella postale, magari presso un commercialista, o che ha firmato centinaia di contratti che però non si applicavano a nessuno, o ancora solo perché questo governo gli ha dato un posto al Cnel. Bisogna ricordare che tra gli oltre 1.000 contratti collettivi nazionali presso il Cnel, quasi 700 coprono meno del 2% di tutti i lavoratori, mentre i 250 circa di Cgil, Cisl e Uil più del 95%.

Quindi contratti diversi, peggiori e magari firmati da totali sconosciuti, diventerebbero uguali per legge?
Esatto. L'equiparazione che il nuovo Allegato introduce tra indicatori diversi e non per forza compatibili tra loro, e tra contratti collettivi nazionali in realtà non equivalenti, produrrebbe effetti di dumping e di ribasso mascherato ma legale rispetto al contratto leader e al costo del lavoro calcolato e comunicato dalla stazione appaltante. Si legittimano così contratti che oggi tutti consideriamo pirata, o comunque con tutele inferiori. Anche la stessa comparazione tra contratti collettivi diversi, se non automatica per via della “dimensione o natura giuridica”, anche se non legittimata dalla nuova definizione di “comparativamente più rappresentativi”, potrà essere comunque legittima, purché gli scostamenti in termini di tutele siano “marginali”. Peccato che a decidere quanto una tutela sia marginale sarà un decreto successivo del ministero del Lavoro, fatto senza passare per il Parlamento, e soprattutto senza passare per le organizzazioni che hanno firmato quei contratti. Su questi aspetti anche il parere del Consiglio di Stato è negativo.

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Eppure la legge delega sui contratti pubblici, la 78/2022, diceva cose diverse.
I principi contenuti nella legge 78/2022 sono chiari sia in termini di applicazione dei contratti collettivi nazionali che di quali tutele sociali devono essere rafforzate. Tutele che non ci sono state regalate, ma sono state ottenute con la mobilitazione e con una vera trattativa a Palazzo Chigi. Durò giorni, con scambi di testi, confronti, mediazioni, e anche con un confronto serrato con il Parlamento. Molte delle tutele del Codice le possiamo ritrovare prima nel decreto 77/2021 e nel decreto sulla Congruità. Poi, su quell’onda, nelle norme scritte dal Consiglio di Stato e contenute nel Codice vigente, con l’applicazione e l’indicazione dei contratti collettivi nazionali e con il rovesciamento dell’onere della prova sull’impresa. Pensiamo per esempio alle clausole sociali dell’articolo 57, per cui tanto si è battuta la Filcams, o all’articolo 110 e alla procedura per cui è l’impresa che, se fa ribassi sul costo del lavoro rispetto al contratto indicato dalla stazione appaltante, deve dimostrare una migliore efficienza per giustificarsi. Ora tutto questo rischia di saltare perché il ribasso lo faccio applicando un contratto diverso e con meno tutele rispetto a prima, senza dovermi più giustificare. Questo è il punto. Che fa il paio con la scelta politica di favorire a tutti i costi le piccole e piccolissime imprese, anche quando non ce ne sarebbe bisogno.

Non è la prima volta che il Codice finisce sotto attacco.
Sì, perché non è certo un mistero che a questo governo la legge delega fatta dal precedente esecutivo non piacesse, proprio perché tutelava troppo i lavoratori. Non a caso iniziò a sfregiarla già con l’inserimento del subappalto a cascata nei testi finali del 2023. Però anche in riferimento alla parità di tutele economiche e normative dei lavoratori lungo la filiera, la legge delega era ed è chiara. Tanto che il legislatore ha sancito addirittura l’obbligo di applicare lo stesso contratto ai lavoratori in subappalto se questi fanno lo stesso lavoro dell’appaltatore principale, di fatto riportando in vita l’articolo 3 della legge 1369 del 1960. Per questo sono personalmente convinto che eventuali modifiche siano anche a rischio di incostituzionalità per eccesso di delega e comunque se queste norme passeranno un effetto “caos” ci sarà da subito.

Quale?
Oltre ai danni enormi che si arrecheranno ai lavoratori e alle imprese più serie - anche al netto delle norme peggiorative su minor concorrenza, cancellazione del rating di legalità, consorzi che rischiano di diventare cartiere - aumenteranno le responsabilità e le discrezionalità delle stazioni appaltanti. Ci saranno minori certezze normative, ampi margini d'interpretazione, e quindi un aumento di ricorsi e contenziosi. Sia di natura amministrativa, sia, per quanto ci riguarda, di natura sindacale. Aumenteranno anche le pressioni e la richiesta di favori ai singoli responsabili pubblici. Insomma, meno diritti, meno tutele, più caos. Altro che fare presto e bene. Con queste modifiche faremo tardi e male.

Cosa farà adesso la Cgil?
Ora siamo tutti impegnati a evitare che queste norme vengano approvate, confidando anche sul fatto che importanti associazioni di impresa e altre forze sindacali, magari con argomenti e toni diversi, condividono le nostre preoccupazioni, in particolare sulla falsa rappresentatività. Lo dimostra il recente e positivo documento di Confindustria, Confcommercio, Cooperative, Abi che merita tutta la nostra attenzione. In ogni caso, credo che dovremmo tutti fare di più, a partire dal sottoscritto, come confederazione e categorie, Camere del lavoro e regionali. Insieme a tutti coloro che ci stanno, con sano pragmatismo. Dobbiamo aumentare la portata della nostra contrattazione d'anticipo, aumentare i momenti di confronto anche a sostegno delle pubbliche amministrazioni, con molte delle quali abbiamo anche recentemente sottoscritto importanti accordi. Soprattutto dovremmo attrezzarci ancora di più, anche se è molto difficile, per organizzare più lavoratori in appalto possibile, e aprire in ogni modo più vertenze. Sia in corso d’opera sia a fine appalto, per il rispetto delle tutele e norme previste dai nostri contratti collettivi nazionali, che sono espressione della volontà della stragrande maggioranza dei lavoratori italiani. Su questo qualche appiglio lo abbiamo, se penso per esempio a come è stato riscritto l’articolo 29 del D.Lgs. 276/03 (sull’obbligo di applicare tutele economiche e normative dei contatti collettivi nazionali definite in base all’oggetto dell’appalto ndr) dopo lo sciopero generale di Cgil e Uil questa primavera. Solo provando ad agire il nostro ruolo fino in fondo, fare dei lavoratori in appalto dei “soggetti” più che degli “oggetti” della contrattazione potremmo sconfiggere la visione “mercantilista” delle relazioni industriali che hanno questo governo e parte del mondo delle imprese. Dobbiamo difendere il sistema contrattuale collettivo per quello che è, e che dovrebbe essere sempre di più: un sistema regolatorio di tutele ampie, economiche e normative, che è parte essenziale della democrazia e di un principio generale di legalità. Non un “mercato” da conquistare per qualche lobbista, consulente o imprenditore malfattore che spera di farsi il suo ente bilaterale personale.