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Era stata licenziata a inizio anno. Poche settimane prima si era rivolta al sindacato perché quando aveva scoperto di essere positiva al Covid e aveva chiesto all'azienda di tracciare i suoi contatti e sottoporre a controllo tutti i colleghi con i quali aveva lavorato e che frequentava quotidianamente, non era accaduto nulla. Solo dopo la diffida della Filcams Cgil Roma e Lazio, la clinica per la quale lavorava aveva iniziato gli accertamenti e i tamponi a tutto il personale.
Poi le aveva contestato il comportamento negligente, l'aveva sospesa dal lavoro e infine licenziata. Perché? Perché l'11 novembre 2020 Patrizia era quasi alla fine del suo turno quando aveva ricevuto la telefonata del figlio che aveva scoperto di essere positivo al Covid. Lei, delegata sindacale e lavoratrice presso una clinica romana, aveva avvertito subito la propria responsabile, si era isolata all'esterno della struttura e aveva aspettato che l'azienda le desse indicazioni. Quando dopo più di un'ora le era stato proposto un tampone rapido in un'altra clinica lontana chilometri, aveva deciso di tornare a casa, mettersi in isolamento fiduciario e aspettare le indicazioni del medico di famiglia.
La risposta di Patrizia è stata immediata: quando è arrivato il licenziamento, si è rivolta di nuovo alla Filcams Cgil e lo ha impugnato in tribunale. Ha avuto ragione. Il giudice ha infatti disposto il reintegro immediato con un'ordinanza che: considerata “l’insussistenza della causa del recesso datoriale”, ordina non solo che Patrizia torni alle sue mansioni ma che le venga anche corrisposta la retribuzione dalla data del licenziamento alla data della reintegra, oltre alla regolarizzazione previdenziale e contributiva. L'azienda è infine condannata al pagamento delle spese legali.
A darne notizia è il sindacato stesso che commenta la vittoria su facebook soddisfatto che ancora una volta la legge abbia dato ragione alla lavoratrice ingiustamente licenziata.