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È sempre una buona notizia quando gli occupati aumentano, ma la differenza nel giudizio di merito è determinata da quali occupati e rispetto a che periodo. La crescita registrata a novembre 2021 sul mese precedente è di 64 mila occupati. Questo è il risultato di una crescita di 66 mila indipendenti (che dopo mesi di continuo calo tornano ad aumentare recuperando la quota di 5 milioni in totale) e di 19 mila lavoratori dipendenti a termine, con una contestuale diminuzione di 21 mila lavoratori dipendenti permanenti.
Se ampliamo la verifica fra questo trimestre e quello precedente, la crescita degli occupati non solo è complessivamente molto bassa (70 mila unità) ma è determinata esclusivamente dall’aumento degli occupati a termine (89 mila), mentre sia i permanenti che gli indipendenti diminuiscono (rispettivamente di 10 mila e 9 mila). Infine su base annua (novembre 2021-novembre 2020) gli occupati dipendenti crescono di 490 mila unità, di cui il 91,5% a termine, pari a 448 mila.
L’analisi non può, però, limitarsi al solo periodo pandemico. Se infatti rispetto a gennaio 2021 l’aumento è rilevante, nel confronto con il periodo immediatamente pre-pandemico (febbraio 2020) il numero di occupati è ancora inferiore di 115 mila unità mentre rispetto a novembre 2019 è sotto di 214 mila unità. Se dunque a novembre si è verificato il ritorno a circa 23 milioni di occupati, l’aumento non è ancora sufficiente a colmare il divario con il periodo pre-pandemico e questo è ulteriormente preoccupante se si considera la qualità del mercato del lavoro nel suo complesso.
Permangono non solo, e anzi si accentuano, precedenti anomalie: il tasso di occupazione femminile resta ancora al di sotto del 50% e il numero di inattivi rimane il più alto d’Europa; ma il mercato del lavoro italiano contemporaneamente si precarizza nelle fasce più giovani di età (15-34 anni) e complessivamente invecchia per una forte crescita dei lavoratori con più di 50 anni (+297 mila in un anno), con un continuo arretramento degli occupati nella fascia 35-49 anni che, per la prima volta, sono meno degli ultra cinquantenni.
In ogni caso, quello che colpisce particolarmente è il meccanismo di precarizzazione in atto con una crescita esponenziale di lavoratori a termine che ha già raggiunto i livelli più alti precedentemente registrati in Italia e che, senza interventi, li supererà abbondantemente. Tutto questo avviene in un periodo di fortissima crescita del Pil e di avvio del Pnrr.
Non è accettabile che le risorse generate dalla crescita e l’utilizzo degli investimenti collegati ai fondi europei provochino queste ricadute sul lavoro ed è, quindi, necessario e urgente che queste scelte siano legate molto di più e in modo più vincolante alla quantità e qualità dell’occupazione. Il lavoro e il salario rappresentano, infatti, un parametro sensibile per la qualità e la durata dello sviluppo futuro che non registra i risultati necessari.
Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione di Vittorio