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Fino a un paio di decenni fa per vivere una vita dignitosa generalmente “bastava” avere un lavoro. Ormai non è più così: precarietà, competizione sui costi, mutamenti del sistema economico hanno prodotto ciò che una volta, se non proprio un ossimoro, era un concetto molto problematico, quello del “lavoro povero”. Oggi, invece, si tratta di un’accoppiata sempre più diffusa e ormai pienamente percepita dalle lavoratrici e dai lavoratori. Una conferma arriva dall’ultimo sondaggio realizzato dall’Osservatorio Futura che per conto della Cgil rileva settimanalmente le opinioni degli italiani su temi di grande attualità.
“Le retribuzioni italiane sono percepite mediamente più basse di quelle europee dall’84% del campione. Solo l'1% le reputa più elevate e poco più del 10% allineate al resto dell’Unione”: così si legge nel Rapporto. La conseguenza è che per il 55% del campione le retribuzioni italiane non solo non consentono di sostenere il costo della vita, ma sono inadeguate anche rispetto al lavoro svolto. Solo il 4% del campione le reputa invece adatte sia al lavoro svolto che al tenore di vita. Tra le categorie di lavoratori analizzate, i pensionati e i dipendenti privati risultano le categorie più svantaggiate.
E ancora: il 44% del campione è insoddisfatto della propria retribuzione e anche le speranze per il futuro lasciano il tempo che trovano, se è vero che per un intervistato su quattro lo stipendio è destinato a peggiorare nei prossimi due anni. I più pessimisti sono gli over 55 e chi ha un titolo di studio inferiore. I più positivi sono giovani, laureati e impiegati.
La rubrica dedicata all'Osservatorio Futura
Ma quali sono le principali cause? Per gli intervistati, leggiamo nel Rapporto, questa situazione dipende da un deficit normativo che non tutela a sufficienza i lavoratori. In seconda battuta si avverte anche l’eccessiva frammentarietà del lavoro (precarietà e numero eccessivo di contratti). Poi vengono una tutela non sufficiente da parte dei sindacati, la pandemia e la guerra.
Il sondaggio si concentra, infine, su quale è e può essere il ruolo del sindacato rispetto alla questione salariale. Il loro ruolo è avvertito come marginale da 6 intervistati su 10. Solo il 5% afferma di trovarli determinanti e tale percentuale sale a oltre il 10% per operai, iscritti a un sindacato, persone con il titolo di studio medio-basso.
Una critica, certo, ma anche l’indicazione di spazi per una possibile azione delle organizzazioni dei lavoratori. Ai sindacati, infatti, viene chiesta più rappresentatività all’interno delle aziende, maggiore tutela delle categorie più svantaggiate (49%), una maggiore capacità di incidere sulle decisioni governative (36%) e di agire per una riduzione del numero di contratti di lavoro (28%).
Scacchetti, Cgil: spazio per il sindacato
“I risultati di questo sondaggio sono molto interessanti, in alcuni casi direi sorprendenti”. Questo il commento di Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil. La prima cosa che colpisce, sottolinea, è la grande consapevolezza (l’84% del campione) che le retribuzioni sono troppo basse: “Si tratta dunque di un malessere diffuso, largamente percepito. E non credo che dipenda solo dalle difficoltà derivanti dalla guerra in Ucraina con il costo della vita che aumenta. Ritengo anche importante il dato che vede il 55% degli intervistati considerare il proprio salario inadeguato rispetto al lavoro svolto”. Per la sindacalista è la conferma “di quanto rilevato dall'Inps in una ricerca di due anni fa e secondo la quale oltre 5 milioni di lavoratori non hanno una inquadramento adeguato rispetto ai loro titoli di studio o alle competenze maturate”.
L'altro risultato per nulla scontato, per Scacchetti, è la “grande percentuale del campione che lega la debolezza e inadeguatezza dei salari alla frammentazione del lavoro. Ciò mostra che questa condizione non è letta solo in relazione alle condizioni di precarietà individuale ma anche alla frammentazione dei cicli di produzione del valore, cioè a un sistema economico che mantiene volontariamente bassi i salari per rendere più difficili le rivendicazione dei lavoratori. Anche in questo caso, negli anni è cresciuta una consapevolezza importante che conferma l’importanza della nostra rivendicazione di mettere al centro il tema del contrasto alla precarietà”.
E qui a essere chiamato in causa è il ruolo del sindacato che, come abbiamo visto, non è considerato ancora determinante rispetto alla questione salariale. “Questo è certamente un aspetto preoccupante – commenta la segretaria confederale della Cgil –. Tuttavia c’è un altro dato che io trovo incoraggiante, e cioè che al sindacato si chiedono presenza e rivendicazioni forti nella propria azienda e una sua azione per incidere con più forza nelle politiche generali del paese. Insomma: si dice chiaramente che il ruolo del sindacato può essere importante per migliorare le attuali condizioni salariali”.
Naturalmente “occupare” questo spazio non è facile perché, riprende la dirigente Cgil, “le condizioni attuali rispecchiano un indebolimento dei corpi intermedi e dell’azione collettiva: se i lavori sono frammentati, se parte una ‘guerra’ tra gli ultimi piuttosto che verso i primi, se sono state introiettate logiche neoliberiste, tutto diventa più complesso”. Tuttavia, osserva, “abbiamo dalla nostra la vitalità del soggetto sindacale e la capacità dei lavoratori di essere soggetto attivo di cambiamento. Basti pensare alla pandemia: i lavoratori in una condizione così difficile hanno reagito, hanno saputo imporre delle priorità tramite la lotta o gli accordi, cioè con gli strumento classici a disposizione del sindacato. Penso ai protocolli sulla sicurezza, all'affermazione dell’idea che la salute viene prima di tutto, agli interventi importanti sugli ammortizzatori sociali”.
Il salario minimo non è risolutivo
Se si parla di questione retributiva, infine, non si può evitare di affrontare il tema del salario minimo, tornato in auge in queste ultime settimane. “Io credo che non ci possa sottrarre a un dibattito su questo tema. Con un’avvertenza però, e cioè che il salario minimo per noi è quello stabilito dai minimi contrattuali e che perciò serve un provvedimento che certifichi la rappresentanza delle parti sociali ed estenda erga omnes l'applicazione dei contratti collettivi nazionali”.
Ma non basta. Per la sindacalista “bisogna essere consapevoli che il salario minimo non sarebbe sufficiente a risolvere la questione salariale, che invece va affrontata su più fronti proprio perché dipende da tanti fattori”. Si tratta di questioni complesse, tra le quali va certamente annoverato il tema del lavoro nero o grigio, un sistema fiscale che penalizza il lavoro dipendente, la precarietà diffusa che rende difficile mettere in campo azioni rivendicative, il numero eccessivo dei contratti (anche in dumping), gli inquadramenti schiacciati verso il basso.
“In realtà – argomenta Scacchetti – noi non abbiamo particolari problemi sui minimi salariali, che per la stragrande maggioranza dei lavoratori, che al 90% sono coperti dai contratti collettivi, non sono sotto la soglia della dignità. Il nostro problema è piuttosto il basso livello dei salari medi, che spesso deriva dal numero di ore lavorate. Rispetto al 2008 a oggi, abbiamo recuperato in termini di persone occupate, ma con un milione di ore lavorate in meno”. L’esempio più eclatante riguarda i part-time obbligatori, che penalizzano soprattutto le donne del terziario, o la forte discontinuità lavorativa. “Se io lavoro tre ore al giorno – chiosa in conclusione la segretaria confederale della Cgil – nessun salario minimo sarà in grado di garantirmi uno stipendio dignitoso. Ripeto: bisogna agire su più fronti”.