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Sono lavoratori a metà tra i dipendenti e gli autonomi. Non hanno le tutele dei primi né la libertà dei secondi. Sono i parasubordinati, un ibrido inventato dal legislatore per rispondere alle istanze di flessibilità delle aziende, avanzate con la scusa di movimentare il mercato del lavoro.
In questa grande famiglia ci sono i collaboratori e i professionisti non iscritti a un ordine, quasi 700 mila persone in Italia, che guadagnano poco e hanno pochi diritti. Il loro numero è in costante aumento in tutti gli ambiti, comprese pubblica amministrazione e sanità dove le restrizioni nelle assunzioni portano a ricorrere sempre più anche alle collaborazioni. Per loro il sindacato da anni reclama più tutele.
Chi sono?
Proseguendo il viaggio nel mare magnum della precarietà, raccontato dalla campagna di informazione e denuncia promossa dalla Cgil con le sue categorie “La precarietà ha troppe facce. Combattiamola insieme”, questa volta si accende un faro su una tipologia di lavoro che sulla carta è autonoma.
Vi appartengono i collaboratori di giornali e riviste, quelli a progetto, i porta a porta, gli occasionali, quelli nella pubblica amministrazione, i cosiddetti etero-organizzati; i professionisti non iscritti a un albo che hanno partita Iva, non versano i contributi alle casse previdenziali di un ordine, come invece avviene per avvocati, ingegneri o architetti, ma alla gestione separata dell’Istituto di previdenza. Possono essere sia esclusivi che concorrenti, a seconda che abbiano uno o più committenti e quindi che il loro reddito sia composto da una o più attività.
Redditi bassi
“Il primo dato che emerge di questi lavoratori è il reddito medio lordo prodotto nell’anno: 11.730 euro per i collaboratori e 16.800 per i professionisti – spiega Nicola Marongiu, responsabile dell’area contrattazione, politiche industriali e del lavoro della Cgil -. Retribuzioni così basse hanno come effetto prestazioni sociali basse. Quelle di sostegno al reddito, come le indennità di disoccupazione, sono proporzionate. Poi c’è la prospettiva pensionistica che sarà diretta conseguenza di quanto è stato guadagnato durante la vita lavorativa”.
Autonomi ma dipendenti
Dalla legge del 2017 sul lavoro autonomo a oggi il quadro è molto cambiato. Oltre a essere emerse nuove professioni, i redditi medi si sono ridotti anche perché i rapporti con i committenti non permettono in molti casi ai lavoratori di imporre condizioni eque e dignitose.
Sono in una posizione di dipendenza economica dall’impresa, ma nonostante questo non sono protetti dai cali di attività perché non hanno trattamenti di sostegno al reddito come la cassa integrazione, ma solo una copertura in caso di disoccupazione, la DisColl per i collaboratori e l’Iscro per i professionisti. In questo modo sono trattati da autonomi, perché di fatto si assumono il rischio di impresa. Negli anni della pandemia, infatti, sono tra i lavoratori che hanno sofferto di più, potendo accedere solo a bonus e una tantum.
Esiste quindi una grande disparità di trattamento tra loro e i dipendenti. E se si guarda nella platea degli autonomi, tra chi ha un ordine professionale e coloro che sono iscritti alla gestione separata. Questo per il sindacato ripropone la necessità di garantire a tutti, a prescindere dalla condizione contrattuale, i diritti fondamentali del lavoro, come previsto negli articoli 35 e 36 della nostra Costituzione.
Prestazioni sociali ridotte
Quanto a malattia, maternità e paternità e infortunio, collaboratori e professionisti ne hanno diritto ma in modo diverso rispetto ai lavoratori dipendenti. Le difformità sono tante: sulla malattia occorrono indennità giornaliere più adeguate, sulla maternità e paternità ci vuole un meccanismo che prenda a riferimento requisiti contributivi più tutelanti per chi ha aperto da poco la partita Iva e per chi ha alle spalle un calo di reddito e anche tempi di riscossione più veloci.
Sugli infortuni e sulle malattie invalidanti, è necessario il riconoscimento pieno e l'accesso all'assicurazione Inail.
Emergenza pensioni
La vera emergenza, poi, è quella previdenziale. Solo il 36 per cento dei professionisti raggiunge i 12 mesi di contribuzione necessari per avere un anno di contributi. Per i collaboratori la situazione è ancora più grave: solo il 13 per cento totalizza l’anno pieno di contributi, poco più di uno su dieci. Si tratta di una platea che per vedersi riconoscere la pensione dovrà lavorare di più: alle difficoltà della vita “attiva” (come si può campare con un reddito di 11 o 16 mila euro annui?) si aggiungono quelle da anziani.
“A fronte della discontinuità nei versamenti è necessario avviare una riforma del sistema che introduca la pensione contributiva di garanzia, per riallineare i minimali Inps quando questi non sono sufficienti per l’accredito di un anno pieno di contributi – aggiunge Marongiu -. Un ulteriore elemento di tutela sarebbe l’obbligatorietà della rivalsa previdenziale del 4 per cento, alzandone in prospettiva l’importo, e l’introduzione di una contribuzione figurativa nei periodi di fruizione delle indennità Inps. Inoltre, prevedere agevolazioni fiscali anche per i professionisti che abbiano deciso di aprire una posizione di previdenza complementare”.
Equo compenso poco equo
Oltre a chiedere interventi mirati al governo, il sindacato mette in campo la contrattazione per regolamentare questi rapporti di lavoro e costruire risposte ai bisogni di chi si ritrova sulla strada dell’autonomia non sempre per libera scelta ma spesso per mancanza di alternative. Gli obiettivi: maggiori tutele e compensi equi.
“Abbiamo sostenuto l’equo compenso, una battaglia che ha condotto all’approvazione della legge 49/2023 – prosegue Marongiu -. Anche se è una conquista importante, è una norma parziale e incompiuta a partire proprio dalla necessità di individuare e adottare parametri per rendere davvero operativo l’equo compenso. Per garantire certezza nel reddito è necessario che questi compensi siano calcolati considerando una prestazione professionale almeno pari al costo azienda, quindi comprensivo di tutti gli oneri contributivi, previsto nei minimi tabellari dei contratti nazionali o comunque per prestazioni affini. Per la Cgil questa è la base da cui partire per la discussione, a cui però si risponde con il silenzio e non attivando confronti”.