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“Per me scioperare è un sacrificio. Prendo 800 euro al mese e una giornata non pagata equivale a fare delle rinunce. Ma venerdì al lavoro non ci vado, questo governo ha peggiorato la mia condizione di vita e lo voglio gridare al mondo!”. Altro che weekend lungo. Per Nadia, e per chi come lei vive sulla propria pelle la fatica della quotidianità, oggi incrociare le braccia rimane l’ultimo avamposto di resistenza.
Un gesto rivoluzionario, eroico in tempi bui come questi, che rischia però di diventare preistorico per il vezzo di un ministro della Repubblica che vorrebbe scardinarlo, depennarlo tra i diritti garantiti dalla nostra Costituzione. Preferisce brandire la solita clava e strizzare l’occhio al più becero populismo invece di ricordarsi, almeno una volta nella sua lunga vita politica, del ruolo che incarna.
Un analfabetismo istituzionale pieno di livore nei confronti del mondo del lavoro. Uno stupidario di stereotipi, luoghi comuni e insulti gratuiti verso i lavoratori e le organizzazioni che quei lavoratori rappresentano. Una regressione culturale degna del peggior Ventennio. Una propaganda che fa dell’Italia la culla europea di un fanatismo destrorso pronto a (ri)prendersi la scena.
Negare uno sciopero è l’anticamera del moderno totalitarismo di molte finte democrazie. È una pericolosa prova di forza per relegare il popolo a meri sudditi. Per impaurirlo, renderlo inerme di fronte al controllo capillare di chi decide come e quando dissentire. In quel gioco perverso dove l’assuefazione al potere genera mostri difficili da combattere.
Una deriva a cui bisogna assolutamente ribellarci. Contrastare quell’idea orbaniana di repressione della critica, di licenziare chi si oppone, di anestetizzare il conflitto. Precettare il loro metodo squadrista e mascalzone è un dovere di tutti. Smascherare questa finta facciata da duri e puri che in realtà nasconde il terrore di non poter controllare più un disagio galoppante.
“La prima settimana di novembre fermiamo l'Italia per mandare a casa il governo. Tre giorni di blocco totale, di spallata in cui tutta la gente per bene si ferma, da Nord a Sud, isole comprese, senza distinzione di colore politico”. Dai ministro Salvini, torni quello del 2015. Anteponga il bene del Paese al suo rendiconto elettorale, riaccenda il buon senso di una gioventù ormai passata e scenda oggi in piazza a gridare al suo governo: Adesso basta!