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“L’intelligenza del lavoro”: questa l’iniziativa che la Cgil mette in campo sulle politiche industriali, per “un nuovo modello di sviluppo e per fermare i licenziamenti”. Una presa di posizione netta e quanto mai urgente, considerate le enormi difficoltà dell’industria italiana, che sembra sempre più vicina a un inesorabile declino.
L’appuntamento è per mercoledì 6 novembre a Milano, al Teatro lirico Giorgio Gaber (in via Larga 14), dalle ore 9.30 alle 16.30, con diretta sul nostro sito (www.collettiva.it). A introdurre i lavori dell'assemblea è il segretario confederale Cgil Pino Gesmundo. Seguono gli interventi di Anna Donati (presidente e amministratore delegato di Società Roma servizi per la mobilità), Enrico Letta (onorevole e autore del rapporto Much more than a market), Mario Pianta (professore di Politica economica presso la Scuola normale superiore di Firenze) e Ludovic Voet (segretario confederale Ces).
Nel corso della giornata intervengono anche sia i segretari e le segretarie generali delle categorie Cgil sia delegate e delegati. Conclude i lavori il segretario generale Cgil Maurizio Landini. Abbiamo chiesto a Pino Gesmundo, che appunto introdurrà il seminario, di approfondire il tema delle politiche industriali, spiegandoci il senso e gli obiettivi dell’iniziativa.
Il Governo Meloni sembra incapace di affrontare le transizioni ecologica e digitale in atto. Ma la sua narrazione è ben diversa, si descrive un Paese in pieno e felice sviluppo. Qual è la verità?
Mentre il Paese reale è attraversato da una delle più gravi crisi industriali degli ultimi decenni, il governo sceglie di narrare un Paese che non c’è. Sceglie di narrare di un boom occupazionale che nei fatti si traduce in più precarietà, meno ore lavorate e un crescente ricorso alla cassa integrazione, racconta di un Paese che prospera e dove non esiste un problema salariale, mentre al contrario si licenziano lavoratori e lavoratrici, si dismettono intere filiere produttive e si entra nelle fasce di povertà pur avendo un lavoro. Inoltre favoleggia su un’idea ipocrita di sovranismo mentre, nei fatti, il nostro apparato industriale si è già trasformato in un vero e proprio supermercato per le grandi holding, per le multinazionali mondiali, per i grandi fondi di investimento finanziario.
Le politiche industriali sono al centro dell’assemblea dei delegati Cgil. Qual è l’urgenza che ha motivato la Confederazione a organizzare quest’iniziativa?
Abbiamo l'urgenza di mantenere alto un profilo di realtà e concretezza su quello che si prospetta come uno dei periodi più difficili per la nostra democrazia. Abbiamo bisogno, il Paese ha bisogno di una grande operazione di verità: dobbiamo far diventare la questione della ‘crisi’ del sistema industriale un patrimonio collettivo di conoscenza del Paese, di quelle donne e di quegli uomini, cioè, che per vivere hanno bisogno di lavorare.
L’industria italiana sta attraversando una lunga fase di recessione, come testimoniano il diciannovesimo calo mensile consecutivo della produzione e le grandi difficoltà di settori come l’automotive, il tessile, la fabbricazione di macchinari. Come intervenire?
Dobbiamo prendere atto che, per quanto profonda è la crisi in corso, il nostro sistema delle imprese non è in grado, da solo, di competere e di rispondere alle sfide delle transizioni in atto. Senza un preciso ruolo ‘pubblico’ nel governo dei processi, le due transizioni (verde e digitale) rischiano di trasformarsi, da possibili volani per l’economia e le imprese, nell’ulteriore occasione di impoverimento del nostro sistema produttivo e industriale. Le numerose vertenze aperte nel 2024 evidenziano come la totale assenza di un attore pubblico capace di orientare le politiche industriali verso settori strategici e rilevanti per il Paese stia provocando disastri, spesse volte irreversibili.
Venendo al ruolo delle imprese, cosa dovrebbero fare per invertire la tendenza?
Il nostro sistema delle imprese si presenta a questa crisi sistemica ancora una volta senza coraggio e visione, e con la sua solita propensione a fare cassa sulla competizione sul costo del lavoro. Insomma, queste caratteristiche, ormai abbastanza radicate nella nostra imprenditoria, non aiuteranno di certo il Paese a superare la crisi. È proprio per questo che, ora più che mai, c’è bisogno che il ‘pubblico’ riprenda in mano le redini del gioco dispiegando un vero e proprio piano di reindustrializzazione del Paese, orientando le scelte degli imprenditori e favorendo un diverso modo di fare impresa
Quali provvedimenti chiede la Cgil all’esecutivo per rendere il nostro Paese nuovamente competitivo?
A Milano offriremo al Paese e al governo proposte precise per il rilancio del nostro apparato produttivo, proposte che, affiancandosi a quelle più generali alla base dello sciopero generale del 29 novembre, parleranno di Europa e del ruolo che deve necessariamente avere per affrontare una crisi globale. Parleremo del ruolo delle istituzioni pubbliche e della necessità che si concentrino in un unico attore le politiche generali per lo sviluppo, chiederemo interventi immediati sul costo dell’energia e di nuovi strumenti sociali che ‘ammortizzino’ il peso delle riconversioni sulle lavoratrici e sui lavoratori. Chiederemo scelte precise, che favoriscano quelle imprese con produzioni innovative e di qualità legate alla transizione. A Milano rivendicheremo anche un diverso modo di fare ricerca e di produrre innovazione.
L’Europa si è data obiettivi ambiziosi, ad esempio sulla decarbonizzazione, ma non riesce a realizzare politiche industriali comuni. I recenti rapporti di Letta e Draghi evidenziano la necessità di investimenti pubblici e privati e di una più stretta integrazione tra le nazioni europee. Come possiamo colmare il divario di innovazione con Stati Uniti e Cina?
Anche alla luce dei rapporti tra Letta e Draghi, è indispensabile che sia l’Europa a guidare il riassetto dell’economia del nostro continente attraverso politiche industriali comuni. Per realizzare ciò è necessaria la creazione di un fondo sovrano europeo che possa aiutare a trasferire la notevole ricchezza privata presente in Europa dalla finanza, che sovente si trasferisce nei fondi americani, all'economia reale, oltre a individuare altre forme di finanziamento europeo tramite sovvenzioni specifiche. Solo creando risorse comuni saremo in grado di competere con il continente asiatico e con quello americano, evitando di perdere la sfida in corso.
In conclusione: la tenuta dell’Europa è a rischio?
È ormai evidente che i rischi per l'Europa sono enormi. Il pil prodotto in Europa rispetto a quello degli altri continenti è in calo da decenni, e non possiamo dare per scontato che il nostro continente rimarrà centrale nell'economia mondiale. Affinché ciò avvenga, è fondamentale che gli Stati comprendano l'entità della sfida in corso e accettino di impegnarsi attivamente.