“Le mancate politiche industriali del Governo Meloni, al di là degli annunci propagandistici di questo o quel ministro, dimostrano la distanza dal Paese reale e il totale disimpegno dell’esecutivo sul tema della crisi dell’industria italiana, che ormai è al palo da quasi due anni”. A dirlo è il segretario confederale Cgil Pino Gesmundo, commentando il report della Confederazione sulle centinaia di migliaia di posti di lavoro a rischio.

Partiamo dall’inizio: quando è iniziato questo declino dell’industria italiana?

Negli ultimi tre decenni i processi industriali sono stati diretti dalle multinazionali e dai fondi speculativi che hanno fatto shopping di imprese nel nostro Paese, spesso a basso costo e usufruendo di benefici e agevolazioni governative con il totale disimpegno della politica e dello Stato.

L’industria italiana si è così via via impoverita. Oggi a che punto siamo?

Il nostro tessuto industriale oggi più che mai è impreparato alle sfide globali imposte dalla situazione geopolitica, e alla necessaria transizione ambientale e produttiva che, senza scelte diverse delle imprese e dei governi, rischia di essere pagata solo dalle lavoratrici e dai lavoratori.

Le “politiche industriali” sono un tema ricorrente, ma sono decenni che non vengono realizzate.

Con il superamento delle partecipazioni statali e le privatizzazioni, in Italia abbiamo smesso di fare politiche industriali. Avevamo aziende riconosciute e affermate in tutto il mondo, oggi siamo in pieno declino industriale. L’idea, sbagliata, che bisognava togliere “lacci e lacciuoli” alle imprese e che il mercato avrebbe garantito il benessere nazionale si è rilevato un errore grossolano.

Il Governo Meloni sta correggendo questo errore?

Purtroppo no. Anzi continua a lavorare nella stessa direzione. Non disturbare chi produce, erogare finanziamenti a pioggia senza condizionalità, oltre alla totale assenza di ambizione di guidare il settore industriale italiano ad affrontare le transizioni digitale ed energetica. Le imprese, da sole, non possono farcela. O meglio il grosso delle imprese, quelle piccole, medie e medio-grandi, non riusciranno a fare gli investimenti necessari per affrontare i cambiamenti epocali che abbiamo di fronte. Non è un caso che il governo non commenti mai i continui cali della produzione industriale e non abbia strumenti per affrontare le crisi che si stanno aprendo. Siamo in pieno declino industriale e la politica se ne occupa poco e male.

Per molti settori, ad esempio l'automotive, le difficoltà investono direttamente l'intera Europa. Qual è ora la situazione internazionale?

Le due transizioni in atto stanno portando a una competizione tra continenti in grado di riposizionare completamente l’apparato produttivo. Gli americani hanno dimostrato di esserne consapevoli inserendo nell’economia centinaia di miliardi per guidare a accelerare la transizione verso le nuove tecnologie. L’Asia è nella stessa condizione, facilitata anche da poteri di indirizzo molto maggiori rispetto ai modelli democratici europei.

E l’Europa?

L’Europa ha fissato gli obbiettivi di decarbonizzazione ma si ostina a non voler realizzare politiche industriali comuni, lasciando i singoli Stati in competizione tra di loro. In questo modo nessun Paese europeo ci riuscirà. Nemmeno la Germania, considerata sino a poco tempo fa locomotiva dell’Europa, aiutata dal basso prezzo del gas russo e dallo sfogo sui mercati asiatici, ci riuscirà.

Cosa dovrebbero fare a Bruxelles per migliorare la situazione?

L’Europa potrebbe fare molto. È necessario che l’Europa guidi, attraverso politiche industriali comuni, il riassetto dell’economia del nostro continente. Per farlo sono necessari ingentissimi investimenti, quantificati in oltre 500 miliardi di euro. In questo caso si tratta di realizzare un fondo sovrano europeo che aiuti a spostare la rilevante ricchezza privata presente nel continente dalla finanza all’economia reale. Solo realizzando risorse comuni saremo in grado di competere con i continenti asiatico e americano e non perdere la sfida in corso. D’altronde è ormai evidente che i rischi per l’Europa sono immensi.

Quali rischi?

Il pil qui prodotto, rispetto a quello degli altri continenti, sta già diminuendo da decenni, e non dobbiamo dare per scontato che il nostro continente resterà centrale rispetto all’economia del mondo. Per farlo è necessario che gli Stati comprendano la portata della sfida in corso e accettino di giocare la partita. Anche in Italia, dove viviamo una condizione economica che potremmo riassumere con una battuta ‘il convento è povero ma i frati sono ricchi’, visto l’enorme debito pubblico e la ristrettezza finanziaria che impedisce investimenti mirati.

In conclusione, dunque, cosa serve all’Italia?

È necessario creare un’Agenzia per lo sviluppo che operi da fondo sovrano nazionale, provando a indirizzare le ingenti risorse rappresentate da fondi pensione e dai risparmi privati dalla finanza all’economia reale. Non farlo significherà alimentare una sfiducia nelle istituzioni, un populismo antieuropeo crescente che ha già dimostrato di non avere nessuno strumento per invertire la rotta, alimentando una sfiducia dei cittadini che metterà a rischio la tenuta democratica del Paese.