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Se guardiamo al mondo Carrefour in Italia, osservando quanto sta accadendo nelle diverse regioni in cui l’azienda francese è presente, il quadro che ne ricaviamo è frammentato e caotico. Non si riesce a rilevare una linea di condotta uniforme, se non in una sorta di processo di decostruzione che in alcuni territori si esprime nella dichiarazione degli esuberi, in altri nella cessione compatta della rete vendita, in altri ancora in una cessione parcellizzata dei negozi a una serie di piccoli imprenditori.
Un paesaggio diseguale, attraversato da altri segnali di incertezza e di fuga, dai lauti incentivi che hanno già prodotto un piccolo esodo di lavoratori a un intreccio confuso di trasferte e trasferimenti: le prime necessarie a tappare i buchi lasciati dal personale che ha scelto lo scivolo per andarsene, i secondi mirati ad invitare altri lavoratori, così scoraggiati, a lasciare il campo.
L’incertezza in Campania serpeggiava da tempo, poi è arrivata la notizia: il passaggio dei 18 punti vendita diretti e del deposito di Airola al gruppo Apulia. “C’è preoccupazione per il futuro, soprattutto per i nostri contratti – dice Paola, dallo storico mercato di Napoli 1 – si teme che nei prossimi due anni possano attuare dei cambiamenti. Ma la grande domanda che ci facciamo è come possa Carrefour parlare di politica di rilancio e allo stesso tempo cedere la Campania. E se Carrefour non è riuscita a gestire una regione come la nostra, come potrebbe farlo un imprenditore privato?”, si chiedono ancora Paola e i suoi colleghi, prestando ascolto a voci sempre più insistenti che darebbero Apulia solo come tramite di un ulteriore passaggio della rete vendita a un imprenditore locale. “Si respira un’aria pesante da quando ha cominciato a girare questa notizia. Abbiamo chiesto un monitoraggio da parte dell’azienda per i primi anni di questo passaggio, ma hanno eluso la domanda”.
In Liguria il programma di cessione si presenta immediatamente con un profilo privato e parcellizzato e a rilevare i punti vendita con la formula dell’affitto d’azienda e delle agevolazioni offerte sono spesso i dipendenti, un processo iniziato già da qualche anno. “Si tratta di piccole società, il punto vendita difficilmente raggiunge le 15 unità e non ci sono i numeri per avere un delegato sindacale - spiega Andrea, lavoratore di Genova – Così si va a sgretolare la tutela. Nel passaggio poi perdiamo l’integrativo e altri benefit aziendali”.
“L’altro grande problema è l’indebolimento dei punti vendita – prosegue Andrea –: grazie agli incentivi offerti dall’azienda dove lavoro io, ad esempio, sono andate via tre persone e se ci mettiamo sopra i rimpiazzi per malattia, le ferie e i permessi, l’organico risulta assai ridotto. Per sopperire alle mancanze i dipendenti di altri punti vendita vengono fatti girare settimanalmente oppure vengono inseriti dei lavoratori interinali, quasi sempre a rotazione”.
A Roma e provincia sono stati dichiarati 83 esuberi. “Un’iniziativa che va in aperto conflitto con la realtà che viviamo tutti i giorni nei supermercati – ci dice Fabio, lavoratore della capitale –, fatta di continui ricorsi agli straordinari, di ingresso di interinali e di una progressiva e consistente opera di terziarizzazione”. Con gli incentivi sono andate via 40 persone, che adesso mancano. E su questo numero si apre un paradosso che stanno vivendo tutti i territori investiti dalla politica di riduzione del personale: il numero di esuberi dichiarato viene proiettato dall’azienda in avanti e non viene minimamente scalfito dalle cospicue uscite che si stanno verificando ovunque in questo periodo.
“Ci sentiamo tutti precari, non sappiamo cosa può succedere – spiega Andrea –: cooperative, esuberi, franchising. Per quest’ultimo abbiamo chiesto un protocollo d’intesa, perché rischiamo di perdere tutto quello che abbiamo e per cui in questi anni abbiamo lottato: i contratti, gli integrativi, la possibilità di essere pagati tutti i mesi lo stesso giorno, abbiamo il timore di andare in mano a un imprenditore che non versa i contributi – perché è successo – o non versa le quote al fondo Est. Ci dicono di avere a cuore i lavoratori, però nei punti vendita non riceviamo certo parole di conforto dai direttori. Siamo dei numeri, e numeri ci sentiamo”. Più d’uno ricorda come andavano meglio le cose quando c’era Gs, quando c’era più partecipazione e i lavoratori erano coinvolti in un progetto. Una dimensione che è andata completamente perduta.
Gli esuberi sono la nota dolente in Piemonte. “Su 2.902 addetti nella provincia di Torino, Carrefour ha dichiarato 170 esuberi totali – racconta Simona, impiegata nel punto vendita del centro commerciale Le Gru, a Grugliasco – nell’ipermercato dove lavoro ne hanno dichiarati 16 full time equivalent, quindi potrebbero essere il doppio, tutti concentrati al terzo e quarto livello, quindi sugli addetti vendita. Una cifra elevata per un ipermercato”.
Anche qui ci sono persone che se ne sono andate con gli incentivi prima ancora che l’azienda dichiarasse la mobilità e che non rientrano nel conteggio degli esuberi. “Dove lavoro io dai 500 addetti che c’erano fino a 10 anni fa siamo scesi a 290. A chi rimane restano carichi di lavoro più elevati, con la prospettiva di arrivare al mancato rispetto delle turnazioni di lavoro per coprire le carenze, modificare i piani ferie al bisogno, con il rischio concreto di un utilizzo sempre più massiccio delle clausole elastiche flessibili, con cambi di orari dalla sera alla mattina, che renderebbero le condizioni di vita fuori dal lavoro sempre più difficili”.
Oltre al consueto ricorso al lavoro terziarizzato e agli interinali, Simona sottolinea “l’uso fuori luogo del contratto studenti, che dovrebbero lavorare solo nel fine settimana ma ai quali si chiede di lavorare anche negli altri giorni, e si trovano in difficoltà a dire di no. Ci sono continue richieste di straordinari domenicali e settimanali: come si fa a parlare di esubero quando la realtà dei fatti dice l’esatto contrario? Poi ci sono le trasferte e i trasferimenti, che peraltro in periodo di pandemia dovrebbero essere limitati. Si investe lautamente negli esodi ma non si prendono in considerazione politiche commerciali vere e proprie, come prezzi più competitivi rispetto alla concorrenza e ammodernamento dei punti vendita. Alla fine la gente va altrove, perché costa meno e ci sono meno disservizi”.
Anche per Jurij, delegato del punto vendita di Carugate, i conti non tornano. “Dal primo settembre 11 persone sono andate via con gli incentivi all’esodo, ma il numero di esuberi dichiarati rimane lo stesso”.
“Non c’è una politica che guardi avanti – spiega Jurij – un progetto di ristrutturazione degli ipermercati, con immissione di nuova manodopera per ricominciare a offrire un servizio, che è quello che manca. Per un servizio dignitoso nelle grandi superfici è necessario un certo numero di addetti, come è possibile tenere aperti 8.000 metri quadri con 200 dipendenti, su tre turni? Andando avanti così la situazione non può certo migliorare. Io ho cominciato a lavorare qui, dove lavorava mia madre, nel 2000, e nel 2007 lei è andata in pensione. C’era un ricambio, i lavoratori con più esperienza insegnavano il lavoro ai nuovi arrivati”.
Toccando la questione del franchising Jurij mette l’accento su un punto delicato e importante, un disagio che attraversa tutti le lavoratrici e i lavoratori di fronte alla realtà, o alla prospettiva, di una cessione. “Oggi sono un dipendente Carrefour, domani mi sveglio e tra me e Carrefour c’è in mezzo un imprenditore. La prima cosa che una persona vive è l’empatia, ma così questa forza viene meno, perché non faccio più parte di un gruppo. È necessario un protocollo d’intesa, l’azienda dovrebbe garantire continuità: perché i lavoratori non vivano nel timore, ma possano continuare a lavorare serenamente”.