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“Reclutavano manodopera allo scopo di destinarla al lavoro”, mediante “attività di intermediazione”, presso imprese agricole, “in condizioni di sfruttamento e approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori”. È quanto si legge nei capi d’imputazione con cui un uomo e una donna, rispettivamente presidente e consigliera d'amministrazione di una società cooperativa sociale della provincia di Perugia, sono stati rinviati a giudizio dal Tribunale del capoluogo umbro con l’accusa di caporalato. Tribunale che ha anche accolto la richiesta di costituzione di parte civile della Flai Cgil, il sindacato delle lavoratrici e lavoratori agricoli.
“La nostra organizzazione è stata ammessa nel processo e questo è un fatto molto importante – spiega Luca Turcheria, segretario generale della Flai Cgil Umbria – Siamo di fronte a un possibile caso di caporalato, anche di dimensioni significative, che coinvolge decine di lavoratori e anche diverse aziende del territorio. In questi anni il nostro monitoraggio nelle campagne, anche nell'ambito del progetto di legalità in agricoltura Di.Agr.A.M.M.I. Nord, ci ha portati ad intercettare alcuni lavoratori che denunciavano situazioni di totale sfruttamento e illegalità. Naturalmente – continua Turcheria – sarà la magistratura ad accertare le responsabilità di questo caso specifico, ma per la Flai la costituzione di parte civile è comunque uno strumento importante, attraverso il quale monitorare il fenomeno e raccogliere tutti gli elementi di questa vicenda per migliorare l'intervento del nostro sindacato in difesa dei lavoratori del settore”.
Nell'atto di costituzione della Flai Cgil, presentato dall'avvocato Luca Ceccarelli, si delineano i contorni della vicenda. “I lavoratori sfruttati erano impiegati tutti i giorni, dal lunedì al sabato, per 10/11 ore al giorno, con una pausa di appena 30 minuti per il pranzo. Solo alcuni di essi avevano ricevuto un minimo di formazione sulla sicurezza sul lavoro e di informazione sui rischi generali e specifici delle mansioni loro assegnate; solo ad alcuni di essi erano stati consegnati dispositivi di protezione; nessuno era stato sottoposto a visita medica. Praticamente tutti i lavoratori percepivano retribuzioni largamente inferiori ai minimi contrattuali, in rapporto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.
In realtà il termine “largamente inferiori” non rende appieno l'idea. Nel capo di imputazione si leggono alcuni esempi del trattamento economico riservato a questi lavoratori e si resta di stucco: “Lavorava dal 24.8.20 al 31.12.20 per 10 ore giornaliere dal lunedì al sabato per raccogliere uva; riceveva euro 320,00; lavorava dal 27.8.20 al 31.12.20 per 11 ore e mezza giornaliere dal lunedì al sabato per raccogliere olive, riceveva euro 405,00; lavorava dal giugno 2018 al giugno 2021 per 9 ore e mezza giornaliere dal lunedì al venerdì, riceveva euro 3 circa all’ora”.
A tenere “sotto scacco” i lavoratori, nonostante le condizioni descritte, era la mancanza di un permesso di soggiorno. “Dalle dichiarazioni rese ai carabinieri da parte delle persone offese – spiega l'avvocato Ceccarelli - è emerso chiaramente un quadro di ricatti e abusi che facevano leva sull’esigenza dei lavoratori di conseguire il permesso di soggiorno e risorse economiche per sé e per i propri familiari”. Una situazione di estrema vulnerabilità, insomma, di cui il datore di lavoro ha approfittato e con lui, verosimilmente, i beneficiari finali dell’attività lavorativa, ovvero le numerose imprese agricole presso le quali i lavoratori hanno svolto la propria attività.
A giugno si aprirà il processo.