PHOTO
Una delle grandi partite nel mondo del lavoro si gioca sul tema degli appalti. È uno dei punti chiave per determinare la qualità dell’occupazione dei lavoratori e delle lavoratrici italiane, e c’è ancora molto da fare. La Cgil sta portando avanti una battaglia per conquistare norme più avanzate, in grado di garantire la correttezza contrattuale e la sicurezza per tutti. Seppure qualcosa sia stato ottenuto, resta ancora molto da fare. Abbiamo fatto il punto con Alessandro Genovesi, responsabile Contrattazione inclusiva, appalti e contrasto al lavoro nero della Cgil Nazionale.
Genovesi, qual è la situazione nel settore degli appalti nel nostro Paese oggi? Che tipo di quadro ti senti di tracciare?
![IMAGOECONOMICA](https://images.collettiva.it/view/acePublic/alias/contentid/1fojyro5qd9dhu70vxv/2/image.webp?f=3x2&q=0.75&w=3840)
![IMAGOECONOMICA](https://images.collettiva.it/view/acePublic/alias/contentid/1fojyro5qd9dhu70vxv/2/image.webp?f=3x2&q=0.75&w=3840)
Nel nostro Paese oggi, anche se calcolati in modo approssimativo, sono almeno quattro milioni i lavoratori negli appalti. Non c’è settore dalla cantieristica alla logistica, dal turismo alle mense, dai magazzini alle grandi fabbriche ai servizi alle persone che non veda la presenza di lavoratori in appalto. L’esplosione è avvenuta dopo le riforme del 2003 (cosiddetta legge Biagi 30/03 e decreto attuativo D. Lgs. 276/03). Da un lato è stata abolita la legge 1369/60 che obbligava all’applicazione del medesimo contratto nazionale lungo la catena degli appalti; dall’altro lato hanno ridotto le tutele previste dall’articolo 2112 del Codice Civile sulla cessione di ramo d’azienda. Insomma, sono cambiati proprio i modelli di azienda, con l’esternalizzazione di parti fondamentali del ciclo produttivo, mentre la tecnologia e il precariato hanno ulteriormente accelerato il processo. Fino ad egemonizzare anche il settore pubblico, portandovi logiche e tipiche di un privato che si andava “imbarbarendo”. La svalorizzazione del lavoro, l’aumento dello sfruttamento, la riduzione dei salari sono il risultato di questo modello produttivo. Del resto dopo l’ingresso nell’Euro eravamo di fronte ad un bivio: investire in conoscenza e qualità (in una battuta sul “Libro Bianco” di Delors) o sulla svalutazione del lavoro, non potendo più svalutare la lira. Abbiamo scelto come Paese la via bassa alla competizione e oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti, con un sistema più debole, meno competitivo, più povero e ingiusto.
Dal suo punto di vista, quello dell’azione sindacale, come si pone la Cgil?
La Cgil si è posta da subito l’obiettivo di riconquistare norme più avanzate che tenessero insieme i principi della 1369/60 con l’evoluzione tecnologica e di mercato e di provare ad agire la contrattazione collettiva per “ricomporre” ciò che veniva frammentato, attraverso una strategia che abbiamo definito di “contrattazione inclusiva”. Qualche avanzamento importante negli ultimi anni è stato fatto sul fronte normativo, partendo dagli appalti pubblici e provando ad estendere le tutele previste dal Codice anche nei settori privati. Così come qualche importante avanzamento contrattuale soprattutto a livello di diritti di informazione nei Ccnl (pensiamo non solo alla “tradizione” del terziario, ma all’importante lavoro svolto anche in molti contratti dalla logistica a quello metalmeccanico industria) e in alcuni casi anche di più. Penso al Durc di Congruità nei lavori edili, pubblici ma anche e soprattutto privati, alla codificazione di buone prassi in alcune filiere dei fornitori (in Emilia e non solo, penso per esempio a diverse esperienze nell’agro industria). Ma sugli appalti privati, dove hanno continuato ad agire norme generali che hanno precarizzato ulteriormente il mercato del lavoro, inutile girarci intorno: moltissimo rimane ancora da fare. Agendo tutto quello che possiamo agire. Penso alle norme previste dalla legge 199/2016 contro lo sfruttamento lavorativo e da ultimo, proprio grazie alle lotte del sindacato, con la legge 56/2024, penso alle modifiche ottenute proprio all’articolo 29 della legge 276/03 che regola gli appalti nel settore privato.
Vertenze e lavoratori da organizzare, norme contrattuali e di legge da agire: queste battaglie sono un tutt’uno con la campagna referendaria e con le battaglie “di libertà” che dovremmo portare avanti nei prossimi anni. Non a caso tra i quesiti ve n’è uno (il quarto) finalizzato a estendere la responsabilità in solido negli appalti, in materia di rischi specifici per la salute. Tutto quello che rafforza la responsabilità in capo al committente riduce i rischi di appalto per risparmio e prova a riportare l’appalto a scelta per specializzazione o flessibilità. E il nesso tra qualità del lavoro, modello di impresa e lotta agli infortuni e alle morti “bianche” è un nesso inscindibile. Più responsabilità in solido vuol dire automaticamente meno sfruttamento e meno morti, infortuni, malattie professionali.
Nello specifico cosa prevede il nuovo articolo 29 del D. Lgs. 276? E quali benefici concreti può portare?
All’articolo 29 del D. Lgs. 276/03 è stato introdotto un nuovo comma 1 bis che prevede che: “Al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nel subappalto spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto”. Una norma che, in termini di principio, richiama proprio la legge 1369 del 60 e che ottenemmo qualche anno fa con il Decreto 77/2021 e poi con il D. Lgs. 36/23 in modo ancora più stringente proprio nel Codice degli Appalti pubblici. Ora ce l’abbiamo nel privato.
Detto in altri termini, con riferimento ai settori privati, con questa nuova norma avremmo avuto maggiori spazi vertenziali nella battaglia per esempio contro Italpizza, portata avanti negli anni 2018-2019 dai compagni di Modena. Una vertenza – quella di Italpizza – che solo dopo diversi mesi di lotte, ha portato ad un’intesa sindacale per applicare ai lavoratori delle cooperative impegnati in precottura, congelamento e inscatolamento delle pizze, il Ccnl dell’industria alimentare invece di quello multiservizi. All’epoca, proprio l’assenza di una norma stringente, fu usata dall’impresa committente tra gli argomenti a difesa della sua “libertà” e anche delle altre aziende, di poter ricorrere ad appalti simili con contratti nazionali diversi da quello dell’industria alimentare, perché non vi era nessun obbligo di legge a una stringente correlazione tra Ccnl e attività svolta.
Ricordo inoltre, per capire la portata della recente modifica, che il nuovo comma 1 bis va letto all’interno di tutto l’articolo 29 che prevede anche la responsabilità in solido in capo all’azienda committente. Che è sempre un “buon argomento” quando si tratta con l’azienda madre. La norma recita testualmente: “in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto”. E questo vale anche per le differenze retributive in caso di vertenza per differenziali salariali (in caso di errata applicazione di un Ccnl non strettamente connesso all’attività data in appalto). Inoltre per gli appalti illeciti, cioè dove non vi è autonomia organizzativa, potere di direzione, rischio di impresa ecc. cioè le caratteristiche di appalto genuino, la norma prevede che: “Quando il contratto di appalto sia stipulato in violazione di quanto disposto dal comma 1, il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414 del codice di procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo”.
Nella situazione attuale come si configura il comportamento delle aziende? Cosa stanno facendo e cosa devono rivedere?
Oggi diverse imprese vanno riorganizzandosi e meglio inquadrando i lavoratori con il Ccnl più corretto anche per sfuggire a contestazioni legate alla legge 231/2001 – dopo che hanno inserito il reato di sfruttamento di cui all’articolo 603 bis del Codice Penale, all’interno dei casi per cui la 231 può agire – e anche per paura del combinato disposto con il nuovo articolo 29. In alcuni casi sono comportamenti spontanei, in altri, dove magari vi è un’azione più attenta di magistratura, forze dell’ordine e sindacale (confederale ma anche autonomo o di base), in modo “spintaneo”. Ma queste aziende sono comunque un’esigua minoranza ancora. Come Cgil quindi dobbiamo fare nostra questa battaglia (e questa norma) con una campagna diffusa, usando meglio e di più i diritti di informazione dei Ccnl nell’azienda committente e attrezzando, oltre che delegati e funzionari, anche gli uffici vertenze che, in alcuni casi, non sono più abituati a certe “pratiche” essendo passati vent’anni dall’abolizione della legge 1369. Questa è contrattazione inclusiva, che negli appalti privati ha ancora più senso visto che, bene o male, negli appalti pubblici qualche tutela, controllo e contrattazione di anticipo c’è ed è anche radicata, a livello nazionale in diversi settori e a livello territoriale. Penso al grande lavoro fatto a Roma, Napoli, Bologna, Firenze, in Emilia, Lombardia, Puglia, eccetera.
Qual è invece la situazione negli appalti privati?
Inutile girarci intorno: nei settori privati la giungla è spesso la regola, con veri e propri sistemi che, dalle cosiddette “imprese serbatoio” a cooperative fittizie a finti autonomi o finti distacchi, “schermano” anche grandi nomi dell’industria e dei servizi. Eppure per combattere questa giungla – anche “fermandoci prima” rispetto alla patologia grave, all’illegalità, allo sfruttamento vero e proprio per cui interviene il Codice Penale e la legge 199 – la costruzione di vertenze per agire la responsabilità in solido dovrebbe essere la regola quotidiana. Esempio virtuosi ne abbiamo anche, ma a mio parere, dopo questi primi mesi di ricognizione, sono decisamente ancora troppo pochi.
In questo scenario, naturalmente, fondamentale è il rapporto con i lavoratori e l’opera di informazione che il sindacato sta portando avanti. In tal senso su quali punti dobbiamo tornare a battere?
Bisogna applicare banalmente il “manuale delle giovani marmotte sindacali”, tornare a chiedere ai lavoratori e alle lavoratrici: “Lavori in un appalto o in un subappalto privato? Vuoi sapere se l’appalto è legittimo o no, perché se non lo è hai diritto ad essere assunto direttamente dall’impresa committente. Vuoi sapere se ti stanno applicando il Contratto nazionale di lavoro corretto (cioè strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto) con le relative tutele economiche e normative, con il giusto salario? Lo sai che, in base alla cosiddetta “responsabilità in solido”, l’azienda committente risponde direttamente? Perché non ci vediamo con te ed i tuoi colleghi per parlarne?”.
In questi mesi, dobbiamo tenere insieme la preparazione di vertenze diffuse con lo spiegare anche le dirette conseguenze della vittoria del sì ai quesiti referendari. Perché sono facce della stessa medaglia. E dobbiamo provare a organizzarli ancora di più e meglio questi lavoratori, provare ad entrare in quelle realtà dove non ci siamo, andando a prenderli dove sono, dal bar di fronte alla loro aziendina, ai momenti di pausa caffè nel grande stabilimento. E dobbiamo farli diventare il “soggetto” attivo – insieme ai delegati e alla categoria dell’azienda capofila – delle vertenze e, come è giusto che sia, anche delle varie sintesi e mediazioni finali a cui si potrebbe giungere con l’impresa, in modo pragmatico, tenendo conto dei vari contesti e rapporti di forza. Non un “oggetto” dell’azione contrattuale e dell’eventuale accordo – perché questo è il nostro obiettivo – ma ripeto uno dei soggetti che partecipa e concorre a decidere.
Un lavoro lungo e complicato, oggi molto più di ieri.
Certo. Visto anche che una parte dei “buoi” sono già scappati e che nessuna vertenza vive sotto una campana di vetro, rispetto a quello che succede nel mondo e in Europa, oltre che nel nostro Paese. E so benissimo, come tante e tanti militanti sindacali sanno, che oggi è difficilissimo, che i contesti e le condizioni specifiche contano, se pensiamo solo, per esempio, a quella parte di lavoratori migranti, privi di permesso di soggiorno e ricattati dalla Bossi-Fini. O ancora se, soprattutto al Sud, quel lavoro per quanto mal pagato è l’unica possibilità che il lavoratore vede davanti a sé. E forse dovremmo investire di più nell’accompagnare questi lavoratori, nel saper interloquire con questure e Pm, con le imprese capofila o con i vari dirigenti delle stesse. Io per primo, sia quando ero in Basilicata che poi in Fillea, a fronte di grandi sforzi politici e organizzativi ho visto spesso corrispondere pochi risultati e molta frustrazione. Ma non abbiamo alternative e dobbiamo farci carico e accompagnare sempre le persone in carne e ossa per come sono realmente, non per come ci piacerebbe che loro (e il mondo) fosse. Ma se una volta i dirigenti e militanti della Cgil venivano chiamati “organizzatori” e “agitatori” sindacali ci sarà una ragione...