PHOTO
Un Primo Maggio diverso, ma nemmeno poi tanto. Chi mastica sindacato sa che tra lavoro e pace il legame è sempre stato forte. Un binomio che ha attraversato la storia più o meno recente del nostro Paese. Gli archivi sono pieni di foto sbiadite, o in bianco e nero, che ritraggono lavoratori attraversare città, bloccare fabbriche e manifestare contro i cannoni. Immagini che tornano purtroppo attuali e si colorano di tinte fosche per raccontare il conflitto in corso nel cuore dell’Europa.
E noi inermi ad assistere al massacro quotidiano. Disgustati dalle immagini di Bucha, Mariupol, Kharkiv, Stoyanka, ma rincuorati dal soffice divano di casa. A dividerci tra buoni e cattivi, tra resistenti e aggressori, tra interventisti ed equidistanti. A giocare al Fantaguerra col sangue degli altri. A schierare i soldatini di plastica atteggiandoci come fini strateghi: meglio prendere prima il Donbass o passare per la Crimea? Più utile colpire chirurgicamente con l’RS-28 Sarmat oppure avanzare metro dopo metro con le vecchie ma sempre affidabili mitragliatrici Vickers?
Bravi a condannare l’atrocità delle violenze ma sempre pronti a sollevare dubbi, a distillare sospetti, a mistificare i morti, a radiografare le vite, a distinguere il gruppo sanguigno, a misurare col goniometro la balistica dei missili, a googolare complotti e postare spazzatura.
Generali d’opinione d’armata e medaglie d’oro d’ipocrisia. Videogamer di una realtà poco aumentata. E soprattutto generatori automatici di “ma anche”. Perché sì, Putin è un mostro-macellaio, ma pure quell’altro... E in questo deprimente bar sport, in cui il mondo dell’informazione colpevolmente amplifica e confonde, tutto è il suo contrario. Gli analisti si trasformano in commentatori, i commentatori in tifosi, i tifosi in hooligans. In un attimo le vittime si trasformano in carnefici e la realtà si ribalta nella tomba del buon senso.
In questo festival del paradosso la pace diventa oggetto di scherno, se non addirittura la causa stessa che impedisce la fine del conflitto. Perché se parli di rischio nucleare, se proponi sommessamente il negoziato come via d’uscita, se anteponi l’arte della diplomazia al business delle armi, se invochi l’intervento dell’Onu, se chiedi alla politica di agire concretamente sul campo e non solo su Twitter, eccolo lì: sei il solito pacifista filoqualcosa. Ma è qui il momento di insistere, di non mollare la presa.
E fa bene la Cgil, e il mondo sindacale in generale, a sottolineare come lavoratrici e lavoratori sono le prime vittime di questa carneficina. Perché alla distruzione fisica delle bombe si aggiunge l’impatto nefasto che quelle bombe stanno provocando all’economia mondiale. Acuendo disparità e cristallizzando paure.
Allora è necessario ribaltare il paradigma dominante. Non dobbiamo accettare che la risposta alla guerra voluta da Putin sia quella di riarmare il mondo. La risposta non può essere spendere più soldi in armi, le risorse devono andare in sanità, istruzione e lavoro. Perché il conflitto in Ucraina ha dimostrato ancora una volta che l’aumento delle spese militari – cresciute del 90% dal 2001 al 2020 – non equivale a vivere in un mondo più sicuro.
Il lavoro ha bisogno della pace e questo è l’unico obiettivo da perseguire, senza compromessi. Utopia? Forse, ma come diceva Nelson Mandela: “La pace può diventare realtà, ma per costruirla bisogna essere capaci di sognare”.