Giusto un paio di mesi fa, in piena emergenza coronavirus, sembrava che Thyssen non potesse fare a meno dell'acciaio prodotto a Terni. Prima le resistenze alla fermata in marzo, con tanto di sciopero dei lavoratori quando il virus faceva davvero paura, poi la forzatura in aprile per anticipare la ripartenza, con una deroga chiesta al prefetto. Solo poche settimane ancora ed ecco l'annuncio: Ast è in vendita, auf wiedersehen Terni.
A dire il vero tra i lavoratori, nel sindacato e in chi conosce un po' le vicende ternane l'annuncio non ha destato particolare scalpore. Che Terni non fosse più al centro degli interessi della multinazionale, al di là delle dichiarazioni di facciata del management locale su una presunta "strategicità" del sito di viale Brin, lo si era capito da tempo. Certo, il momento in cui è l'addio è stato pronunciato, con un'emergenza sanitaria ancora in atto e una crisi economica e di mercato fortissima, non è sembrato dei più opportuni.
Ma tant'è, la scelta stavolta sembra presa definitivamente. La stagione iniziata nel 1994, con la privatizzazione e l'ingresso dei tedeschi di Krupp (la fusione con Thyssen sarebbe arrivata qualche anno dopo) è arrivata ai titoli di coda. E ancora una volta Terni si trova chiamata a difendere la sua fabbrica, la sua unitarietà, il suo lavoro, il suo futuro.