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Passano gli anni, ma a Prato nulla sembra cambiare. Passano gli anni, scanditi da notizie e immagini drammatiche. Il rogo al Macrolotto, la zona industriale, non quello che a luglio scorso ha “soltanto” devastato un capannone, ma quello del dicembre 2013 in cui morirono bruciati vivi 7 operai cinesi. E poi la morte di Luana D’Orazio, la giovane di 22 anni stritolata da un macchinario in un’azienda di Montemurlo, il 3 maggio del 2021. Le centinaia, forse migliaia di notizie che, solo a scorrere le ricerche online, rimbalzano sullo schermo riportando ai nostri occhi cronache che sembrano arrivare da altri tempi e altri mondi: lavoratori sfruttati, incatenati alle macchine, chiusi a chiave nei capannoni, i materassi buttati a pochi metri dalle postazioni di lavoro dentro la stessa fabbrica. Una specie di girone infernale che tutti conoscono.
“Prato – ci dice al telefono il segretario generale della Filctem Cgil provinciale, Juri Meneghetti – resta tuttora il più grande distretto tessile-abbigliamento d’Europa. Si contano poco meno di 2mila aziende per il tessile e oltre 4600 per l’abbigliamento. Lo sfruttamento lavorativo si annida nella parte dell’abbigliamento dove una buona fetta di imprese illegali è a conduzione cinese, ma non solo, ci sono ormai tanti datori e lavoratori di altre nazionalità. Come Filctem Cgil, insieme alla Camera del Lavoro sono anni, decenni, ormai, che denunciamo la situazione”.
Eccola lì, la situazione, una volta di più. La notte dell’8 ottobre quattro persone – due operai pakistani e due italiani – sono state aggredite a colpi di spranghe di ferro. La loro colpa? Ritrovarsi al presidio organizzato dal Sudd Cobas davanti ai cancelli della pelletteria Confezione Lin Weidong di Seano, una frazione di Carmignano. Se la protesta non fosse finita – hanno minacciato gli autori del blitz – la volta successiva avrebbero sparato a chi scioperava.
Come è possibile che accada tutto ciò? “Quello di Prato è un sistema di produzione illegale – dice con chiarezza il segretario della Filctem –. E se uno pensa di affrontare il problema ditta per ditta non può che uscirne sconfitto. Non è un singolo imprenditore che fa il padrone, qui è un intero sistema organizzato in questo modo. Lo abbiamo denunciato tutti insieme, Cgil Cisl Uil Filctem Femca Uiltec Confindustria CNA Confartigianato, in un documento per il lavoro dignotoso. Da anni suggeriamo come aggredire il sistema di sfruttamento e perché va contrastato come sistema. E quando un lavoratore si presenta da noi per denunciare la propria condizione di sfruttamento, noi ci muoviamo nel rispetto della legge e del protocollo ad hoc che abbiamo sottoscritto qui sul territorio, per avere un modus operandi condiviso che ci aiuti a gestire al meglio i singoli casi”.
“A me torna utile utilizzare questa metafora – spiega Juri Meneghetti –. È come se noi avessimo un bicchiere e raccogliessimo l’acqua del rubinetto. Il nostro bicchiere funziona benissimo, le persone che si rivolgono a noi riescono a ottenere protezione e risarcimento. Quello che, tuttavia, servirebbe è chiudere il rubinetto. il bicchiere funziona, ma non basta perché il rubinetto continua a buttare acqua”.
E come si chiude il rubinetto? “In Italia le norme ci sono. C’è il codice penale e pure la responsabilità dei committenti. Ma non si applicano. Non viene mai chiamato in causa chi ha commissionato il lavoro. Anche quando la ditta viene penalmente sanzionata, chi le ha commissionato il lavoro non viene mai chiamato in causa. E invece si potrebbe e si dovrebbe fare”. Insomma, si sana la singola impresa che sfrutta, ma non si sana il sistema. Si colpisce l’ultimo anello della catena, l’ultimo stadio della filiera, che può essere facilmente rimpiazzato.
Cosa fa il sindacato? “Noi facciamo il sindacato, facciamo accoglienza, integrazione e tutela giuslavoristica, ma lo Stato dovrebbe aggredire la situazione per quello che è, un sistema organizzato, e dovrebbe risalire, di volta in volta, al committente che dà lavoro a queste aziende che sfruttano i lavoratori. Invece succede questo: se un lavoratore viene in Cgil, noi gestiamo il caso singolo, ci costituiamo parte civile, vinciamo la causa, il datore, spesso cinese, viene condannato, al lavoratore spetta un risarcimento e il committente resta impunito e si rivolge a un’altra azienda che sfrutta”.
Il sistema è talmente collaudato da essere una delle chiavi dell’attrattività del distretto. “Il numero di imprese di abbigliamento censite a Prato ogni anno cresce. Quest’anno che c’è stata forte crisi e la maggior parte delle aziende hanno dovuto ricorrere alla cassa integrazione, il numero di attività è comunque cresciuto dello 0,5%. Restiamo un polo attrattivo perché non si applicano le norme. E al netto delle carenze che tutti conosciamo – gli ispettori sono pochi, le risorse ancora meno – è evidente che lo Stato non affronta il problema alla radice”.
"Noi – conclude il segretario della Filctem Cgil – lo abbiamo detto da sempre a tutti e abbiamo dimostrato, in alcuni casi, che applicando le norme il sistema può essere colpito, ma non può essere il singolo lavoratore che fa causa ai mondo – si sfoga il segretario –: lo Stato deve fare la sua parte. Non è un imprenditore fraudolento, è un sistema di produzione illegale che macina profitti e mastica diritti tutti i giorni. Se prolifera vuol dire che non c’è la volontà politica di fermarlo. E a dirlo non è solo la Cgil, ma sono tutte le forze sociali sane di questo territorio”.