PHOTO
Il lavoro minorile non si conta ma si stima. Non esistono infatti statistiche precise: si va per approssimazione desumendo il numero dei ragazzi e delle ragazze che giovanissimi sono al lavoro, analizzando altri fenomeni a cominciare da quello dell’abbandono scolastico.
L’ultimo Rapporto sul lavoro minorile risale al 2013 e fu curato da Salve the Children. Stimava fossero circa 260mila i minori di 16 anni coinvolti in esperienze di lavoro, ma quel rapporto è troppo lontano per capire il fenomeno oggi. Ci ha pensato la Fondazione studi del Consiglio nazionale dell’ordine dei Consulenti del lavoro, che pochi mesi fa ha pubblicato un approfondimento rielaborando dati Istat.
Ma facciamo un passo indietro. La legge 977 del 1967 prevede che adolescenti possano lavorare non prima di aver compiuto i 15 e solo dopo aver ottemperato all’obbligo scolastico, che nel 1999 è stato portato a 10 anni e quindi arriva ai 16 di età. Chi impiega ragazzi e ragazze prima dei 16 anni commette un’illegalità. Anzi ne commette due, perché ovviamente non è possibile stipulare un regolare contratto, quindi questi “piccoli” vanno a ingrandire il bacino del lavoro nero. E infatti "tra il 2018 e il 2019 sono stati accertati dall’Ispettorato del lavoro più di 500 casi di illeciti riguardanti l’occupazione irregolare di bambini e adolescenti, sia italiani che stranieri, di cui la maggioranza nei servizi di alloggio e ristorazione. Circa 70 e nel commercio all’ingrosso o al dettaglio, a seguire attività manifatturiere e agricoltura. Nel 2020, per effetto delle chiusure aziendali a seguito della pandemia, il dato risulta in calo a 127 (contro i 243 del 2019)”. Ma questi sono la parte di fenomeno emerso, quello - appunto - individuato dalle ispezioni.
Secondo la rielaborazione dei Consulenti del lavoro, il 4,7% dei lavoratori e lavoratrici sotto i 35 anni dichiara di aver cominciato a lavorare prima dei 16. “Complessivamente il 10,7% degli attuali occupati ha iniziato a lavorare a un’età inferiore ai 16 anni ma, negli anni, tale quota è andata riducendosi, a seguito della crescita dei livelli di istruzione della popolazione, di benessere delle famiglie e sviluppo del Paese”. Numeri importanti, ancorché probabilmente sottostimati, che fanno dire a Sandro Gallittu, responsabile Politiche per politiche per la famiglia e l’infanzia - area stato sociale e diritti della Cgil Nazionale: “Questi numeri attestano che esiste ancora una sacca importante di lavoro minorile in Italia, superiore alla media europea, che da un lato vive condizioni di povertà estrema nonostante l’introduzione del Rei prima e del Reddito di cittadinanza poi. E all’altro esiste una quota importante di abbandono scolastico. Insomma, povertà economica e povertà educativa sono le concause del lavoro minorile”.
Il fenomeno riguarda più i maschi che le femmine e ha una maggiore incidenza nelle regioni meridionali, in quelle a forte vocazione turistica: Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta e Sardegna. Non solo si alimenta dell’abbandono scolastico, ma determina anche le prospettive future dei giovani. Secondo lo studio dei Consulenti del lavoro: “Quello che emerge con maggiore evidenza dall’analisi è l’impatto che il lavoro minorile finisce per avere sulle prospettive di vita dei giovani coinvolti, differenziandone fortemente i percorsi di formazione e di carriera futuri rispetto a quelli dei loro coetanei, anche in tempi recenti. Tra gli occupati con meno di 35 anni che hanno iniziato a lavorare prima dei 16 anni, circa la metà (46,5%) consegue al massimo la licenza media. Il 10,6% completa il ciclo della formazione obbligatoria, con un diploma secondario di 2-3 anni, mentre il 31,7% ha un diploma secondario di 4-5 anni e solo l’11,2% ha una laurea. Tra quanti hanno invece iniziato a lavorare in età legale, il 27,3% consegue la laurea, il 47,3% un diploma secondario, e solo il 17,9% si ferma alla licenza media”. E come è ovvio solo il 17% di quanti hanno cominciato a lavorare prima dei 16 anni arriva a svolgere professioni qualificate e ai vertici della piramide occupazionale.
Il dato ancor più allarmante è che mentre negli anni scorsi questo fenomeno era in diminuzione, la pandemia ha di nuovo fatto tornare in crescita la percentuale dei ragazzi occupati. “Presumibilmente - afferma Gallittu - dipende da un lato dalla chiusura delle scuole che ha determinato un aumento dell’abbandono scolastico, e dall’altro dall’aumento delle famiglie in difficoltà economica. Il lavoro è tornato a essere un'alternativa alla scuola e un aiuto alla famiglia. Insomma chi affermava che la pandemia sarebbe stata una livella si sbagliava di grosso: ha approfondito le diseguaglianze e a farne le spese sono stati proprio i figli e le figlie delle famiglie più fragili. Basti pensare alla Dad che doveva essere il sostituto della scuola anche per chi non aveva connessione”.
Se si guardano i settori dove è più diffuso il lavoro minorile si scopre che coincidono – turismo e ristorazione – con quelli che lamentano difficoltà a trovare manodopera, perché il Reddito di cittadinanza “farebbe loro concorrenza”. Insomma, suggerisce ancora Gallittu, la manodopera in nero anche di ragazzi e ragazze contribuisce a una concorrenza al ribasso tra i lavoratori stagionali. Sfruttamento doppio.
Una volta analizzato il problema occorre domandarsi che fare. “Innanzitutto - per il dirigente sindacale - occorre investire di più nel contrasto all’abbandono scolastico e i fondi del Pnrr possono essere un’occasione se a essi vengono affiancate risorse per la spesa corrente. In secondo luogo, è necessario migliorare strumenti già in vigore e che come Cgil abbiamo contribuito a rendere più equi. Parlo del Reddito di cittadinanza e l’Assegno unico universale, correggendo alcune storture che rischiano di essere paradossali. Ad esempio la sottrazione della quota figli del Rdc dall’assegno unico universale, che produce l’effetto di sfavorire proprio le famiglie con i redditi più bassi”.
Infine, quando ci si occupa di lavoro minorile, non bisognerebbe dimenticare che colpisce maggiormente i figli e le figlie delle minoranze etniche, a cominciare da Rom e Sinti. Gli strumenti di contrasto vanno pensati e resi esigibili anche – forse soprattutto – per loro.