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La fase successiva alle scissioni è una delle più difficili per il sindacato italiano. La Cgil prova a uscirne attraverso una proposta politica forte, lanciata al II Congresso di Genova (1949) e nota con il nome di “Piano del lavoro”. Nelle intenzioni dei promotori il Piano, che prevedeva la nazionalizzazione dell’energia elettrica e un programma esteso di lavori pubblici in edilizia e agricoltura, doveva sollecitare le classi dirigenti sul tema delle cosiddette “riforme di struttura”.
Dopo il Piano, Di Vittorio lancia al III Congresso di Napoli (1952) l’idea di uno Statuto dei diritti dei lavoratori. Il clima politico del centrismo democristiano non è tuttavia favorevole a questo tipo di iniziative. Lo dimostrano nel 1953 lo scontro frontale sulla nuova legge elettorale maggioritaria (la cosiddetta “legge truffa”) e nel 1954 la dura vertenza sul conglobamento che si conclude con un accordo separato senza la Cgil.
Sempre nel 1954, però, Giuseppe Di Vittorio è - insieme a Teresa Noce - tra i primi firmatari di una proposta di legge, annunciata il 14 maggio (tra gli altri firmatari - citandone solo alcune e alcuni - Bei, Santi, Foa, Pessi, Roasio, Maglietta, Ravera, Li Causi, Cianca), relativa alla fissazione di un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori.
Obiettivo dichiarato della proposta è quello di dare applicazione all’articolo 36 della Costituzione, garantendo ai lavoratori e alle lavoratrici una retribuzione non solo commisurata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, ma anche sufficiente ad assicurare a loro e alle rispettive famiglie un’esistenza libera e dignitosa.
“Onorevoli Colleghi!”, recita in apertura il testo di presentazione: “La proposta di legge che sottoponiamo alla vostra attenzione trova essenzialmente il suo fondamento nelle gravissime condizioni in cui versano centinaia di migliaia di lavoratori che pur sono regolarmente occupati. (…) La fissazione di un minimo salariale, non rappresenta, (…) esclusivamente un atto di riparazione sociale e giustizia, essa costituisce anche il primo passo per la concreta attuazione dell’art. 36 della Carta costituzionale che testualmente stabilisce: Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. È ben noto che la situazione salariale del nostro Paese sia particolarmente precaria (…) Fra questi salari bassissimi e comunque insufficienti ve ne sono taluni corrisposti per certe categorie o in determinate zone, che per la loro avvilente irrisorietà, acquistano le caratteristiche di veri e propri salari schiavisti”.
Recita l’articolo 1: “Tutti i lavoratori, indipendentemente dal sesso e dall’età, occupati nell’industria, nel commercio e nell’artigianato, lavoranti a domicilio o presso terzi, non potranno in nessun caso ricevere una retribuzione inferiore alle lire 100 orarie e alle 800 per il normale orario giornaliero di otto ore, comprensive della paga base e della contingenza, qualunque sia la misura di questa nelle singole province”.
E così continua: “La retribuzione minima nazionale di lire 100 orarie e di lire 800 giornaliere per otto ore di lavoro, spettante indistintamente a tutti i lavoratori indipendentemente dalla loro qualifica - specifica l’art. 2 - subirà le variazioni in più derivanti dal congegno della scala mobile. A questa retribuzione minima dovranno essere aggiunti, per i lavoratori a cottimo o a norma o in qualunque modo impegnati a un determinato rendimento, la percentuale e i guadagni di cottimo fissati dai contratti collettivi per le singole categorie”.
Per completare e rafforzare la misura, la legge - proposta e mai approvata - sancisce che (art. 6) “ogni pattuizione in deroga alla presente legge deve considerarsi nulla. I datori di lavoro che la trasgrediscono saranno puniti con una multa dalle 10 mila alle 100 mila lire e dovranno corrispondere ai lavoratori defraudati del minimo tutti gli arretrati dovuti. Parimenti dovranno essere riassunti al lavoro i lavoratori eventualmente licenziati dall’imprenditore per sottrarsi all’applicazione della legge”.
“È giusto - tornerà a dire Di Vittorio pochi anni dopo in quello che rimarrà il suo ultimo discorso pubblico (1957) - che in Italia, mentre i grandi monopoli continuano a moltiplicare i loro profitti e le loro ricchezze, ai lavoratori non rimangano che le briciole? È giusto che il salario dei lavoratori sia al di sotto dei bisogni vitali dei lavoratori stessi e delle loro famiglie, delle loro creature? È giusto questo? Di questo dobbiamo parlare, perché questo è il compito del sindacato”.