Il tasso di occupazione giovanile al Sud si ferma al 29,8%, ben 15 punti in meno della media europea. Solo una donna su tre lavora, il tasso di occupazione complessivo si ferma attorno al 50%. A dicembre la Svimez denunciava che in quelle regioni si rischiano ben 500mila nuovi poveri. Lo stesso istituto sosteneva che nel 2023 il Pil meridionale si potrebbe contrarre fino a -0,4%, mentre il dato medio italiano dovrebbe attestarsi intorno a +0,5%. La dispersione scolastica arriva al 16,6%. Questi alcuni dei numeri che spiegano le ragioni che hanno spinto le tre confederazioni ha mettere tra i punti centrali della mobilitazione unitario il Mezzogiorno e dare appuntamento il 20 maggio a Napoli. Ne parliamo con Giuseppe Massafra, segretario confederale della Cgil.

Marco Merlini

Il presidente Mattarella, nelle celebrazioni a Reggio Emilia del Primo Maggio, ha detto che il divario tra Nord e Sud è intollerabile e viola la Costituzione. Sembra però che per il governo non sia un problema...
Il presidente Mattarella, nel sottolineare che ci sono divari in crescita - non solo tra Nord e Sud ma anche territoriali – ha messo in evidenza come l'elemento vero di coesione sia il lavoro. La riduzione dei divari è direttamente legata al valore del lavoro inteso nello spirito costituente, quello che segna il primo articolo della Carta, quello che afferma che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Ecco, per ridurre le disuguaglianze e per contrastare la crescita dei divari territoriali occorre garantire al Paese un lavoro di qualità. Lavoro di qualità è quello pieno dei diritti e delle tutele che oggi purtroppo mancano. O sono messe pesantemente in discussione soprattutto in determinati territori. Allora serve mettere in campo gli investimenti necessari per poter costruire le occasioni di nuova occupazione di qualità, quelli pubblici attivati dalle risorse europee straordinarie del Pnrr, dai Fondi di sviluppo e coesione e dallo stesso bilancio dello stato, tutti dovrebbero essere indirizzati alla riduzione dei divari. I segnali che arrivano sembrano non andare in questa direzione, anzi la situazione sta addirittura peggiorando.

Nel Documento di economia e finanza non sembra nemmeno esserci il tema della riduzione.
No, non c'è. Manca una strategia di riduzione dei divari tra Nord e Sud, per quelli territoriali in genere. Quello che c’è, invece, è che viene confermata la volontà di procedere con l’autonomia differenziata che inevitabilmente porterebbe a un ulteriore divisione del Paese attraverso la costruzione di piccole patrie, di autonomie regionali che non sono certo un viatico per la coesione.

Uno degli obiettivi traversali del Pnrr, la ragione per la quale al nostro Paese sono state assegnate così tante risorse, è proprio la riduzione dei divari territoriali, tra i generi e le generazioni. Il governo Draghi aveva vincolato il 40% degli investimenti alle regioni meridionali. Il governo Meloni invece denuncia ritardi e vuole rivedere il Pnrr.
La sensazione, che ormai si fa sempre più convinzione, è che il governo non stia riuscendo a trovare il modo giusto per impiegare le risorse. E i ritardi sembrano dovuti allo stravolgimento della programmazione già avviata, e della governance. Intravedo, anche, delle vedute diverse tra l'Europa e il nostro Paese. Tutto questo ci preoccupa non poco. Una parte di quelle risorse devono essere spese entro il giugno del 2023 per riuscire a recuperare le ulteriori. Insomma sia rispetto al Piano nazionale di ripresa e resilienza, sia rispetto ad altri investimenti nutriamo molta preoccupazione non solo per la capacità o meno di messa a terra, ma anche per l’impiego di queste risorse che non ci pare sia indirizzate pienamente né alla buona occupazione né alla qualificazione del mondo del lavoro attraverso la formazione, la riqualificazione delle competenze dei lavoratori. Dovrebbero essere investimenti legati anche alla capacità di interpretare nel modo più autentico e giusto il tema delle transizioni, da quella digitale a quella energetica, fino a quella sociale. L’indicazione che l’Europa aveva giustamente dato, era di pensare a un utilizzo di queste risorse nelle zone più deprivate, più fragili, quindi al Mezzogiorno. Invece nel governo c'è chi teorizza, per non perderle, di rimodulare l'utilizzo delle affidandole ai territori che hanno più capacità di programmazione, cioè al Nord. Senza domandarsi, però per quale motivo ci sono territori che hanno capacità di programmazione e di spesa maggiore rispetto agli altri. La verità è che dove c’è meno capacità di spesa è proprio dove meno si è investito negli anni passati, dove maggiore è il depauperamento delle amministrazioni pubbliche e dove maggiore – quindi – è la necessità di spendere e investire. Insomma un circolo vizioso che andrebbe interrotto, non approfondito. Se non cambia, se non viene capovolto questo paradigma, da questa situazione non solo ne usciremo, ma vedremo crescere i divari. Questa consapevolezza purtroppo nella visione del governo manca totalmente. Lo dimostra il Def, lo dimostra il decreto di propaganda approvato dal Consiglio dei ministri il Primo Maggio che non si occupa di costruire una visione di Paese con al centro il tema della coesione, a partire dalla riduzione dei divari e dalla qualificazione del lavoro. Invece cresce la precarietà, incentivata dalla liberalizzazione dei contratti a tempo e dall’aumento dei voucher.

Poi l’eliminazione del Reddito di cittadinanza che non tiene conto delle cause della povertà, così diffuse al Sud, la mancanza appunto di lavoro di qualità.
Da quando è partita l’offensiva nei confronti del Reddito di cittadinanza da parte del governo Meloni che lo ripetiamo: la loro filosofia colpisce i poveri non la povertà. E se guardiamo alle regioni meridionali la lotta andrebbe fatta al lavoro nero e grigio, a quello senza diritti e povero, a quello precario e sfruttato. Quello strumento che oggi aboliscono ha avuto due effetti: da un lato ha contribuito alla sussistenza di chi è in difficoltà e durante la pandemia ha evitato un milione di poveri aggiuntivi, dall’altro ha contribuito ad avere maggiore potere contrattuale. Chi lo ha ricevuto ha potuto non accettare condizioni inaccettabili di sfruttamento e sottosalario. Il venir meno di questo strumento è un colpo durissimo inferto a persone, lavoratori, che lo vedevano come un'alternativa al lavoro nero, allo sfruttamento, oltre che alla povertà.

Il terzo appuntamento della mobilitazione di Cgil Cisl e Uil è a Napoli. Uno dei temi al centro della piattaforma unitaria è proprio il Mezzogiorno, perché questo faro acceso?
Non c'è crescita per il Paese se non c'è sviluppo anche nel Sud e se non si recupera il gap storico che si è determinato tutti questi decenni e che di fatto ha rallentato lo sviluppo. Nel Mezzogiorno c'è la necessità di costruire politiche industriali all'altezza delle sfide di questa epoca, politiche che sappiano intercettare le transizioni. C’è bisogno di ripensare a delle politiche sociali che abbiano la capacità, il livello di benessere non ancora raggiunto. Al Sud c'è più necessità di investire sul perimetro pubblico. Penso alla sanità, penso all'istruzione. In quelle regioni c’è minore qualità e quantità di assistenza sanitaria, c'è il livello di dispersione scolastica maggiore. E il tasso di disoccupazione così alto è certo dipendente da politiche industriali insufficienti, ma anche di insufficienti servizi e perimetro pubblico. Insisto: questi divari dipendono dal fatto che la loro riduzione e lo sviluppo del Sud non è mai stata considerata una priorità dell’Italia intera, una precondizione per lo sviluppo complessivo del Paese. Per noi lo è, per questo è tra i punti qualificanti della nostra mobilitazione.