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Scelte di vita differenti, ricerca di un lavoro migliore, o forse (più drammaticamente) il segnale di un malessere professionale. Sono tutte da indagare le cause del boom di dimissioni che si sta registrando in Italia. Un fenomeno che proviene dagli Stati Uniti, dove l’uscita volontaria viene chiamata “great resignation” (le “grandi dimissioni”, appunto), oggetto dell’attenzione di sociologi ed economisti.
Il boom delle dimissioni
Sono un milione 660 mila le dimissioni che si sono registrate nei primi nove mesi del 2022: il 22 per cento in più dell’anno precedente (nel 2021 erano 1,36 milioni). A fornire il dato è il ministero del Lavoro, divulgando i consueti dati trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie. Il dicastero, inoltre, precisa che le dimissioni sono attualmente la seconda causa di cessazione dei rapporti di lavoro, venendo dopo la scadenza dei contratti a termine.
Prendendo in esame soltanto il terzo trimestre 2023, quindi il periodo che va da luglio a settembre, le dimissioni sono state 562 mila, in aumento del 6,6 per cento (pari a oltre 35 mila uscite volontarie). Per una corretta lettura del dato è bene però precisare che il numero indica i rapporti di lavoro cessati per dimissioni e non il numero dei lavoratori coinvolti.
In crescita anche i licenziamenti
In aumento, però, è anche il numero dei licenziamenti, ripresi dopo il blocco dovuto alla pandemia. Nei primi nove mesi del 2022 sono stati 557 mila (nel medesimo periodo del 2021 erano 379 mila), con un balzo in avanti del 47 per cento. Nel terzo trimestre del 2022 sono stati 181 mila, in crescita del 10,6 per cento (pari a 17 mila uscite decise dal datore di lavoro) rispetto al terzo trimestre 2021.
Il commento della Cgil
“L’aumento delle dimissioni può avere spiegazioni molto differenti”, spiega la segretaria confederale Tania Scacchetti. “Da un lato può positivamente essere legato alla volontà, dopo la pandemia, di scommettere su un posto di lavoro più soddisfacente o più ’agile’. Dall’altro però, soprattutto per chi non ha già un altro lavoro verso il quale transitare, potrebbe essere legato a una crescita del malessere dovuta anche a uno scarso coinvolgimento e a una scarsa valorizzazione professionale da parte delle imprese”.
Il giudizio di Cisl e Uil
“Occorre rivedere i modelli organizzativi verso una maggiore qualità”, commenta il segretario confederale Cisl Giulio Romani: “Il 95 per cento delle aziende italiane sono microimprese, dove si fa più fatica a sviluppare forme di welfare integrativo, non si pratica la contrattazione aziendale e non si costruiscono sistemi premianti trasparenti. Dove si eroga poca formazione, si genera minore conciliazione tra vita e lavoro, e dunque s’intravedono minori prospettive di crescita economica e professionale”.
Per la segretaria confederale Uil Ivana Veronese, la crescita delle dimissioni volontarie è “forse un segno di come le priorità si siano modificate anche nella testa delle lavoratrici e lavoratori: se da qualche parte c’è uno smart working più flessibile, se la mia retribuzione è troppo bassa o gli orari sono troppo disagevoli, se ho voglia di provarci davvero, un lavoro, magari anche sicuro, lo si può anche lasciare”.