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Emilio Miceli, segretario confederale della Cgil, ci sono studi dell’Ice (Istituto commercio estero) e dell’Istat che analizzano gli effetti della pandemia sulla globalizzazione e le cosiddette catene del valore. Qualcuno parla addirittura di reshoring e di globalizzazione ammorbidita (slowbalisation). Si sta invertendo la tendenza?
È un processo lento che in alcuni settori si è notato ancor prima della pandemia. Certamente la pandemia ha indebolito le catene del valore globali a causa del blocco dei trasporti e della produzione. Uscire presto dalla pandemia è un'urgenza proprio per non essere tagliati fuori. Comunque siamo in presenza ancora di fenomeni limitati. Se penso alle grandi filiere industriali è giusto avere una forte preoccupazione: se penso alla componentistica dell’auto piuttosto che alla petrolchimica, o alla crescita della produzione siderurgica nel continente asiatico, solo per fare qualche esempio, corriamo il rischio di un indebolimento della quota italiana nella divisione internazionale, ed europea, del lavoro.
Le delocalizzazioni non sono tutte uguali. Quali sono le differenze tra le scelte delle grandi multinazionali e quelle delle imprese più piccole che però si devono misurare con l’internazionalizzazione?
Il vero problema è rappresentato dal comportamento dei fondi speculativi, che finalizzano la loro presenza all’obiettivo di scomporre i cicli industriali delle imprese per poi piazzare i diversi assets sul mercato. Il paradosso è che per reggere il quadro competitivo globale c’è sempre più bisogno di mettere insieme le catene del valore. Certo, l’apertura del mercato cinese innanzitutto, ha provocato un riassetto complessivo del sistema industriale globale che ha avuto e avrà inevitabilmente effetti anche su di noi. Ma il problema è che la sfida competitiva globale sembra, soprattutto nei beni di consumo, improntata alla bassa qualità. Delocalizzare per abbassare i costi e non per conquistare spazi di mercato significa al tempo stesso abbattere le retribuzioni e diminuire la qualità dei prodotti.
Una delle molle fondamentali delle delocalizzazioni delle imprese italiane negli ultimi anni è sempre stata la convenienza sul costo del lavoro. È ancora così? E che cosa potrebbe fare il sindacato a livello europeo per evitare la competizione tra lavoratori di diverse nazionalità?
I motivi sono i più diversi. Certamente il risparmio sui costi, a cominciare da quello del lavoro, è l’elemento cruciale. Spesso è la grande impresa a decidere dove deve collocarsi il proprio indotto, soprattutto per le produzioni a basso valore aggiunto. È vero, il problema dell’Europa è quello, anche, di correre a diverse velocità in tema di retribuzioni e di diritti. Chi difende i diritti del lavoro e ha una giusta proporzione tra lavoro e prodotto viene penalizzato. La rincorsa verso il basso rischia di determinare un impoverimento del sistema industriale più complessivo. Non si fanno buoni prodotti con salari al di sotto delle condizioni di sussistenza. In questo senso va rilanciata la funzione regolatoria del contratto nazionale. Ma forse sarebbe necessario farsi venire qualche idea, legata alla contrattazione, in grado di determinare soglie minime salariali legate alla condizione delle singole filiere industriali. La troverei la risposta più efficace al tempo stesso al dumping ed al rilancio dell’industria europea.
Uno degli effetti delle delocalizzazioni è stata una vera e propria falcidia di posti di lavoro in Italia. L’altro effetto collaterale è la perdita di conoscenza e sapienza industriale e tecnologica. Le delocalizzazioni sono un affare per le imprese, ma provocano impoverimento economico e sociale. Come si potrebbe contrastare il fenomeno? Che pensi del dibattito politico sulle proposte di legge per regolamentare il mercato?
In parte ne abbiamo già parlato. Il processo di delocalizzazione obbedisce a esigenze più diverse: risparmi, riposizionamento sul mercato globale, ristrutturazione dei cicli, speculazione finanziaria. A questo proposito mi piacerebbe capire qual è l’obiettivo del governo. Si annuncia una legge sulle delocalizzazioni, che continuo a ritenere argomento sensibile, complesso e delicatissimo, ma non sappiamo qual è l’analisi e l’obiettivo. L’Italia è un paese che vede una presenza rilevante di multinazionali e ci si muove su un terreno scivoloso. Senza il concorso di tutte le forze sociali, senza un dibattito alto ed una sintesi razionale, rischiamo di farci del male. È forte il bisogno di un confronto aperto per mettere a punto strumenti, legislativi e pattizi, in grado di difendere l’industria italiana ed europea. Servono più governo e più relazioni industriali.